1 aprile 2016

La vetrina degli incipit - Marzo 2016

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...





«Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell'uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.

Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L'alta zicura di limo e tronchi al limite dell'acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all'altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.

Nulla è tanto ordinato e perfetto quanto immotivato e misterioso come il cielo e la volta stellata che studiavamo ogni notte immersi in calcoli sulle distanze, le orbite, i cicli.

Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiega e aggiunge mistero, come la memoria.
Il contadino chiedeva: «Avremo un buon raccolto, quest'anno?». Sapendo la casualità della pioggia e del secco, le stagioni consuete e le infinite varianti, rispondevamo: «Oltre i fiumi, in terre non lontane, la notte incombe a mezzogiorno, forse sono nuvole di pioggia, forse nugoli di cavallette».
Era difficile sbagliare. Il pastore chiedeva: «Quanti agnelli venderò per la festa della luna nel mese delle mandorle aspre?». Conoscendo il mistero della generazione e quello del gelo rispondevamo: «Il cuore della terra è nero, forse gli agnelli saranno quanti le pecore, forse meno, forse nessuno. Quanti sono i tuoi montoni?». Chiedendo numeri educavamo a contare. Il mercante chiedeva: «Nella stagione del risveglio il barbaro giungerà a depredare o il re guiderà i guerrieri a depredare il barbaro?». Rispondevamo: «Chi può leggere nella mente del re? Glorioso è il destino del guerriero, felice il destino del mercante. Ma non tutti i mercanti arrivano a vecchiaia». Era difficile sbagliare. Il ricco figlio del padrone di capre chiedeva: «Il guerriero accetterà, per dare in moglie la bella figlia, tredici capre pregne e tre cavalle o invece riterrà offensiva l'offerta e vorrà spaccarmi il cuore innamorato con una pietra levigata?». Era difficile sbagliare: «Chi non tenta non rischia. Chi non tenta non ottiene».
»
Passavamo sulla terra leggeri, di Sergio Atzeni - Il Gatto Zorba

«...sul tavolo, sotto la finestra della sua camera da letto sta, appartata, la voce che l'ha fatta di nuovo sognare. Frammenti di una vita trascorsa da molto, molto tempo. Attraverso un centinaio di anni, la voce le parla, con tanta chiarezza da farle sentire che è impossibile non prendere la penna per rispondere.

La bambina dorme. Nur al-Hayah: luce della mia vita.

Anna deve aver posato la penna, pensa Amal, per guardare la bambina, appoggiata al suo fianco: il viso arrossato dal sonno, la bocca socchiusa, una ciocca di capelli neri, sottile e umida, incollata alla fronte.
»
Il profumo delle notti sul Nilo, di Adhaf Soueif - Sakura

«Eravamo rimasti seduti accanto al camino col fiato sospeso a sentire il racconto ma, a parte il fatto che era semplicemente agghiacciante, così come dovrebbe esserlo ogni racconto fuori dall’ordinario che sia oggetto di una narrazione la vigilia di Natale in una antica e vetusta magione, non mi ricordo di alcun commento particolare finché qualcuno fece rilevare si trattava dell’unico caso in cui una esperienza di questo tipo era occorsa a un bambino.
Per parte mia devo dire che quel caso riguardava un’apparizione che si era verificata in un’antica casa del tutto simile a quella dove noi ci trovavamo. L’apparizione, senza alcun dubbio malevola, era occorsa a un bambino che stava dormendo nella camera di sua madre e che, terrorizzato da quanto aveva visto, l’aveva svegliata dal sonno; ma il motivo per il quale l’aveva svegliata non era tanto il conforto che lei avrebbe potuto dargli per farlo riaddormentare tranquillo, ma affinché anche lei potesse vedere quella che era stata la causa del suo spavento.
»
Giro di vite, di Henry James - Antonio

«Probabilmente le cose che mi sono accadute, sarebbero potute capitare soltanto a me. Non lo so. Non ho mai sentito di vicende simili capitate a qualcun altro. Ma non sono dispiaciuta che si siano verificate. In segreto, dentro di me, nutro una strana e profonda gratitudine. Ho sentito persone raccontare cose - e non si trattava sempre di persone tristi - che mi hanno fatto immaginare che se anche loro sapessero quello di cui io sono venuta a conoscenza, si sentirebbero come alleggeriti da un carico spaventoso a lungo portato sulle spalle.
Per la maggior parte delle persone l'essenza della vita è così incerta che se solo avessero la possibilità di vedere, sentire e sapere tutto con chiarezza, si prostrerebbero in ginocchio e ringrazierebbero. Questo era ciò che provavo io stessa prima di riscoprirmi così curiosa, ed ero solo una ragazzina. Ecco perché ho intenzione di provare ad annotare ciò che mi è successo al meglio delle mie possibilità. Probabilmente non sarà un ottimo lavoro, perché non sono mai stata brava a scrivere e ho sempre incontrato difficoltà nel parlare.
»
Anime bianche, di F.H. Burnett - Polyfilo

«Ernst amava fare lo psicoterapeuta. Giorno dopo giorno, i suoi pazienti lo invitavano nei luoghi più intimi delle loro vite. Giorno dopo giorno, lui offriva conforto, si occupava di loro, ne alleviava la disperazione. In cambio era ammirato e apprezzato. E pagato, per quanto avesse pensato spesso che, se non avesse avuto bisogno di soldi, avrebbe fatto quel lavoro anche gratis.
Fortunato colui che ama il suo lavoro. Ernst si sentiva fortunato, certo. Più che fortunato. Benedetto. Era un uomo che aveva trovato la propria vocazione, che poteva dire: “Esprimo perfettamente me stesso, sono al culmine dei miei talenti, dei miei interessi, delle mie passioni.” Ernst non era religioso ma, quando ogni mattina apriva l’agenda degli appuntamenti e vedeva i nomi delle otto o nove persone che gli erano care e con le quali avrebbe trascorso la giornata, era sopraffatto da un sentimento che avrebbe potuto definire unicamente col termine religioso. In quei momenti provava il desiderio più profondo di rendere grazie - a qualcuno, a qualcosa - per averlo guidato fino a comprendere la propria vocazione. C’erano mattine in cui alzava gli occhi, guardava attraverso il lucernario della sua casa in stile vittoriano di Sacramento Street, attraverso la nebbia mattutina, e immaginava i propri antenati psicoterapeuti sospesi nella luce dell’alba.
»
Sul lettino di Freud, di Irvin D. Yalomon - Cattivissima Prof


«Era martedì e la vita non era ancora cominciata. Mercoledì sarebbe stata tutta un'altra storia. Scaroth, l'ultimo degli Jagaroth, stava per ricevere una sorpresa. Per cominciare, non immaginava che tra poco sarebbe diventato l'ultimo degli Jagaroth. Se gli aveste chiesto degli Jagaroth appena , diciamo, venti soned prima, lui si sarebbe stretto nelle spalle e vi avrebbe risposto che erano una razza di feroci guerrieri, e che se non vi andavano bene, avreste dovuto conoscere gli altri. Nel contesto dell'universo, le razze di feroci guerrieri andavano per la maggiore. "Indicatemi una stirpe di poeti e filosofi" diceva Scaroth "e vi mostrerò il mio prossimo pranzo."
Sarebbe tuttavia ingiusto affermare che gli Jagaroth fossero completamente privi di talento. Costruivano astronavi davvero graziose, per quanto non necessariamente ben funzionanti. La Sephiroth presentava svariati aspetti degni di nota. Con la sua forma di sfera appoggiata su tre artigli, aveva un'aria terribilmente minacciosa pur ricordando il tipo d'insetto che non si fa troppi problemi a schiacciare se ce lo si trova tra le lenzuola. La disposizione delle zampe a treppiede mostrava che era in grado di atterrare su qualsiasi superficie. Ironico, dato che in quel momento non poteva staccarsi da quella su cui si trovava..
»
Doctor Who - La Città della Morte, di Douglas Adams,James Goss - Daniele

«In viaggio: i giorni umidi e oleosi dopo Natale. L’auto- strada, le terre desolate che circondano Londra: l’erba ai margini si accende dell’arancione dei fari e le foglie degli arbusti avvelenati si striano di giallo-verde come i meloni. Quattro del pomeriggio: sulla grande tangenziale tramonta la luce. A Enfield è l’ora del tè, a Potters Bar cala la notte. Ci sono delle sere in cui non ne hai voglia ma devi farlo lo stesso. Sere in cui, guardando giù dal palco, vedi stupi- de facce ottuse. I messaggi dei defunti arrivano a casaccio. Non li puoi rispedire indietro neanche volendo: i defunti non si lasciano né blandire né costringere. Il pubblico pe- rò ha pagato il biglietto e intende vedere dei risultati. Un cielo verdemare: i lampioni, una fioritura bianca. Questa è una terra a margine: campi di fili tesi, di pneu- matici lisci abbandonati nei fossati, di frigoriferi stesi esa- nimi sulla schiena, di pony affamati che brucano nel fan- go. È un paesaggio che brulica di emarginati e fuggiaschi, di afghani, turchi e curdi: di capri espiatori sfregiati dal- le bottiglie e dalle bruciature, che scappano dalle città con le costole rotte, zoppicanti. Le forme di vita presenti sono scarti o anomalie: i gatti travolti dalle macchine in corsa e le pecore di Heathrow col vello intriso del tanfo di carburante.
Accanto a lei, di profilo rispetto al vetro appannato, c’è il volto deciso della conducente. Sul sedile posteriore si agita un coso morto che brontolando comincia a respira- re. L’automobile fugge attraverso gli svincoli e lo spazio delimitato dall’autostrada è lo spazio che lei ha dentro: l’arena di combattimento, la terra desolata, la sede della guerra civile chiusa tra le costole. Batte il cuore, occhieg- giano i fari posteriori. Mandano una tenue luce i quartie- ri dormitorio, gli elicotteri in volo, le stelle fisse. Cala la notte sui ministri spergiuri e sui pedofili sfiniti, sui via- dotti negletti e sui ponti coi graffiti, sui canali di scolo sotto le siepi ammalate e sulle ringhiere mai scaldate dal contatto umano.
È notte, inverno. Ma nei nidi putridi e nelle tane vuote lei percepisce i segni di un’evoluzione, gli indizi della pri- mavera. È l’ora del Pendu, l’Appeso che legato a un pie- de ciondola dall’albero pieno di linfa. È l’ora sospesa, in cui si esita e si tira l’aria nei polmoni. In cui lasciare an- dare le aspettative ma non la speranza; in cui anticipare il giro della Ruota della Fortuna. È la nostra vita e bisogna viverla. Pensa quale sarebbe l’alternativa. Un banco di nuvole statico, come una macchia d’in- chiostro. L’aria scurisce.
Non ha senso chiedermi se sceglierei di essere quella che sono, perché non ho mai avuto scelta. Non conosco altro, non sono mai stata diversa. Ancora più scuro. Il colore lascia la terra, rimane sol- tanto la forma: le cime degli alberi ammassate somigliano al dorso di un drago. Il cielo si fa blu mezzanotte. L’aran- cio delle luci stradali si macchia di rosso ciliegia; nei pa- scoli i piloni sollevano le gonne in una gavotta metallica.
»
Al di là del nero, di Hilary Mantel - Valetta

«Catherine si fa forza, ma le sembra di non farcela. È aggrappata allo smalto freddo del lavandino e solleva la testa per guardarsi allo specchio. Il viso che loe restituisce lo sguardo non è lo stesso con il quale si è coricata. Lo ha già visto, e sperava di non rivederlo più. Si osserva sotto quella nuova luce impietosa e inumidisce l'asciugamano passando solo sulla bocca, poi se lo prende sugli occhi come se potesse, così, soffocare la paura.
"Stai bene?"
La voce del marito la coglie alla sprovvista. Sperava che continuasse a dormire. Che la lasciasse in pace.
"Si, meglio " mente spegnendo la luce. Ancora bugie 《Deve essere stato il take-away di ieri sera.》Si volta verso di lui, un 'ombra nel cuore della notte
"Rimettiti a dormire. Sto bene" sussurra. È ancora mezzo addormentato, ma trova comunque la forza di posarle è una mano sulla spalla.
"Sicura?"
"Si, sicurissima" risponde lei. L'unica cosa di cui è sicura è che ho bisogno di starsene un po' da sola
"Robert. Per favore. Torno tra un minuto."
La sua mano indugia sulla spalla ancora un istante poi Robert obbedisce. Catherine aspetta che si sia riaddormentato prima di tornare in camera da letto. Adesso guarda il libro: è lì sul comodino, capovolto, aperto dove lo ha lasciato. Il libro di cui si è fidata. I primi capitoli avevano stuzzicato il suo interesse, trasmettendole qualcosa di piacevole, lasciandole solo intravedere il brivido che sarebbe arrivato, un incentivo a farla andare avanti pagina dopo pagina. Quel libro l'ha come irretita, attratta con l'inganno finché non si è accorta di essere in trappola. A quel punto le parole avevano cominciato a rimbalzarle in testa e colpirla al petto una dopo l'altra. Era come se una folla di persone fosse saltato davanti a un treno in corsa e lei, il macchinista impotente, non avesse potuto evitare l'impatto mortale. Era troppo tardi per frenare. Non c'era modo di tornare indietro. Senza poterci fare nulla, Catherine aveva incontrato, tra le righe di quel libro, se stessa.
»
La vita Perfetta, di Renee Knight - Chiara A.

0 Commenti a “La vetrina degli incipit - Marzo 2016”

Posta un commento

 

La Stamberga dei Lettori Copyright © 2011 | Template design by O Pregador | Powered by Blogger Templates