26 gennaio 2013

Diario di lettura di lettura di Patrizia: Meridiano di sangue

Anno 1833, Tennessee. Durante una pioggia di stelle cadenti una donna muore e un bambino nasce. Né della donna né del bambino conosceremo mai il nome. La prima “aveva incubato nel ventre proprio la creatura che l'avrebbe uccisa. Il padre non pronuncia mai il nome della donna, il ragazzo non lo conosce”; allo stesso modo nessuno pronuncia mai il nome di quel bambino, che per tutto il romanzo sarà the kid, il ragazzo. Ormai quattordicenne, il ragazzo lascia la casa e il padre alcolizzato per diventare un vagabondo in un vasto territorio desertico i cui confini sono appena stati ridefiniti dalla guerra messicano-statunitense (combattuta tra il 1846 ed il 1848 che costò al Messico metà del suo territorio, con durevole rancore agli Stati Uniti.)

Il ragazzo, dopo aver dato prova di ingenuità unendosi agli irregolari del capitano White, viene arrestato in Messico. Riacquista la libertà grazie al capitano Glanton (personaggio realmente esistito) e al giudice Holden, i quali sono a capo di una banda che, su commissione dei governatori messicani, uccide gli indiani (e tutto quello che incontra), li scalpano e portano il loro macabro bottino al committente che li paga in base al numero degli scalpi.

I massacri (non solo di indiani ma anche di messicani e americani, insomma di tutti coloro che possono arricchire il bottino di scalpi) si susseguono sino a quando il gruppo si impadronisce di un traghetto sul fiume Gila, vicino a Yuma, per taglieggiare i viaggiatori. Attaccati dagli indiani Yuma (una tribù che aveva convissuto pacificamente con i bianchi sino a quando Glanton e il giudice non avevano cercato di massacrarli), pochi riescono a sopravvivere e tra questi il ragazzo che, dopo una estenuante marcia nel deserto, si ritrova a vagare nuovamente lungo la frontiera tra Messico e Texas, sino a quando a Fort Griffin, ormai quasi trentenne, il suo destino si incrocia nuovamente con quello del giudice Holden.

Diario di lettura di Patrizia, o: i sei consigli per farsi conquistare da questo capolavoro

Meridiano di sangue è considerato un libro fondamentale della letteratura statunitense contemporanea: basta fare una rapida ricerca sul web per scoprire che è oggetto di tesi di dottorato, di corsi universitari e di saggi di approfondimento. Una recensione diventa quindi impegnativa se non si conoscono, nemmeno per sommi capi, alcuni aspetti della storia e della cultura statunitense: leggendolo, infatti, ho avuto la sensazione che si tratta di un libro che vuole parlare soprattutto agli americani per metterli di fronte alla loro storia (quella non esaltante fatta di massacri ed espropriazioni) e che certe sfumature non le avrei proprio potuto cogliere, e questo mi dispiace perché a me piace sempre contestualizzare.

Dunque, il primo consiglio a chi voglia affrontare la lettura di questo (per me) capolavoro è di mettere in conto qualche ricerca su Wikipedia (e sul web in generale) per approfondire (o, come nel mio caso, conoscere ex novo) la guerra contro il Messico e la dottrina del "Destino manifesto" (Manifest Destiny), che mi sembra ancora predominante in una certa politica estera degli USA (è la mia opinione, magari sbaglio: cercherò di saperne di più e nel frattempo siate comprensivi).

Il secondo consiglio è quello di dedicare alla lettura di questo libro più tempo di quello che solitamente impiegate. Più tempo e più qualità del tempo. Mi spiego meglio. Non fate come me l’errore di iniziare la lettura in un treno affollato, dovendo costantemente dedicare un occhio ai tre adorabili (per me) pestiferi (per tutti gli altri viaggiatori) marmocchi che sono a voi affidati mentre gli altri genitori si dedicano ad attività più rilassanti (accidenti a loro che si sono accaparrati i posti lontano dai tre pargoli). E non perseverate nell’errore cercando di continuare a leggere in una camera d’albergo in cui la televisione è (quasi) sempre sintonizzata sui Fantagenitori (i genitori capiranno la mia disperazione). Per fortuna (per me ovviamente), l’incipit è così bello che non mi ha fatto desistere dalla lettura, ma mi ha spinto ad alzarmi prima di tutti gli altri per poter leggere in solitudine e scivolare, ombra tra le altre, accanto ai cacciatori di scalpi, agli indiani, ai messicani e a tutti gli altri esseri che si muovono sullo sfondo di una natura magnifica, grandiosa e implacabile.

Terza indicazione è di assumerne piccole dosi giornaliere (max 1 capitolo al giorno): in caso contrario rischiate di avere crisi di rigetto verso il linguaggio ricercato (ma affascinante), l’assenza di punteggiatura che introduce il discorso diretto, la cruda descrizione dei massacri, delle scalpature, delle cancrene, della condizione costante di sporcizia e indigenza in cui vivono tutti i protagonisti e della violenza (insensata?) che si ritrova in ogni pagina. Una lettura lenta, invece, consente di apprezzare ogni singola parola (mai una fuori posto), di sviscerare la visione del mondo del giudice Holden e di entrare nel mondo feroce del West.

Il quarto suggerimento riguarda lo stato d’animo con cui vi accosterete al libro e alla capacità di essere realmente empatici (cioè di far proprio il punto di vista di tutti i protagonisti guardando il mondo con i loro occhi) non per giustificarli o assolverli (impossibile) ma per assumere i loro riferimenti culturali e i loro valori cercando di dare un senso alle loro azioni e, in definitiva, dare un significato personale a quello che McCarthy vuole comunicare. Un aspetto da considerare è proprio che questo romanzo consente a ciascuno di giungere a conclusioni personali: McCarthy ha una sua visione e la comunica sia attraverso le descrizioni della natura sia attraverso i dialoghi/monologhi tra il giudice Holden e gli altri personaggi, ma poi ogni lettore può decidere quanto riconoscere di quello che legge nella natura dell’uomo. McCarthy non vuole convincere nessuno: presenta i “fatti” (siano questi efferati massacri o disquisizioni intorno alla natura umana) nella loro brutalità mettendo in guardia il lettore che essi possono risultargli indigesti ma che non può ignorarli. La storia umana è ricca di massacri, violenze, genocidi e pensare che ormai tutto questo sia alle nostre spalle è solo una pia illusione (e a me vengono in mente immagini legate a parole come Guantanamo, Rwanda, Olocausto, Palestina, Hiroshima, Dresda, 11 settembre), anzi (questo è il “personale”, e quindi del tutto arbitrario, messaggio che mi lascia McCarthy) bisogna vigilare su noi stessi perché non ci lasciamo affascinare dalla semplicità della violenza e dell’annullamento dell’altro. Altra categoria da abbandonare è quella che differenzia gli uomini in buoni e cattivi. Non esistono buoni e non ci sono cattivi: l’uomo mette in atto la sua natura, uccide perché può farlo, perché è quello che gli viene spontaneo. Seguono la loro natura e, per questo, sono liberi: emblematica mi sembra la figura dell’idiota, un ragazzo con un grave handicap cognitivo che, pur avendo l’opportunità di avere una casa e una famiglia, fugge via per poter rimanere un idiota libero di girare nudo e fissare il fuoco perdendosi nelle scintille che si disperdono nella notte fredda e buia.

Il quinto avvertimento è di abituarsi, per quasi tutto il libro, a fare un’inversione figura/sfondo. I protagonisti umani in alcune situazioni diventano comparse, che mai esprimono i loro sentimenti, che non manifestano alcun interesse verso l’altro. Eppure a me tutta la narrazione è sembrata ricca di risonanze emotive che, e questo è il punto, non sono veicolate dalle parole e dagli stati d’animo degli uomini ma dalle descrizioni dei paesaggi naturali. Anche gli animali assumono un ruolo nell’economia affettiva del romanzo: gli unici esseri verso cui i protagonisti (ad eccezione di Holden che non fa mai nulla di spontaneo e disinteressato) manifestano tenerezza sono gli animali. In particolare, Glanton manifesta un forte attaccamento verso i cavalli e i cani, mentre non esita a uccidere chiunque (indiano e meno) abbia uno scalpo che può fargli fruttare del denaro.

Il sesto e ultimo consiglio, ovviamente, è di leggere il libro, di farlo come preferite (in fretta, in lingua originale o nella traduzione, odiando McCarthy e il giudice Holden, lamentandovi dello stile epico e grandioso) ma di leggerlo.

Dettagli del libro

  • Titolo: Meridiano di sangue o Rosso di sera nel west.
  • Titolo originale: Blood Meridian, or theEvening Redness in the West
  • Autore: Cormac McCarthy
  • Traduttore: Raul Montanari
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 1998
  • Collana: Supercoralli
  • ISBN-13: 9788806184506
  • Pagine: 344
  • Formato - Prezzo: Brossura - € 11,50

2 Commenti a “Diario di lettura di lettura di Patrizia: Meridiano di sangue”

  • 26 gennaio 2013 alle ore 11:46
    sakura87 says:

    Pensa che viene spesso citato dal mio professore di etnologia nei suoi libri di testo di antropologia del paesaggio ;) quando ero in pieno panico 'a chi chiedo la tesi?' avevo provato a chiederla a lui e proprio su McCarthy, di cui ho adorato 'Non è un paese per vecchi' e 'La strada', ma il professore era troppo pieno.
    E comunque: articolo veramente bello.

  • 26 gennaio 2013 alle ore 14:33
    Anonimo says:

    Bell'articolo!
    Anche io ho iniziato e sospeso per due volte la lettura e mi sono ritrovata in tutti i sei punti che hai elencato. Purtroppo serve una grande concentrazione che non si può avere sui mezzi pubblici, né quando si legge per addormentarsi.

    Magari la terza volta è quella buona (ma per sicurezza lo ricomincerò durante le ferie)!

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