1 novembre 2014

La vetrina degli incipit - Ottobre 2014

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...





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«Anche gli dèi morti governano. Anche gli infelici temono per la loro felicità. Lingua dei sogni. Lingua del passato. Aiutatemi a uscire, fuori dal pozzo, via dallo strepito nella mia testa, perché sento strepitare le armi?, stanno combattendo?, chi combatte?, madre, i miei colchi, sento le loro gare nel nostro cortile, dove mi trovo?, lo strepito diventerà sempre più forte? Sete. Devo svegliarmi. Devo aprire gli occhi.»
Medea. Voci, di Christa Wolf - Sakura

«Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti. Aveva freddo, e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava. Era diretto a casa, ma che senso aveva tornare a casa? Anche da ragazzo in Italia, in Abruzzo detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella città di Rocklin, Colorado. Era appena uscito dall' Imperial Poolhall, la bisca locale. Le montagne c'erano anche in Italia, simili ai bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra. Vent'anni prima, quand'era ventenne, aveva fatto la fame per un intera settimana fra le pieghe di quel selvaggio abito bianco. Doveva costruire un camino in una baita. Era pericoloso lassù, d'inverno. Eppure aveva mandato al diavolo il pericolo, perché allora aveva vent'anni, una ragazza a Rocklin, e bisogno di soldi. Ma il tetto della baita era crollato sotto il peso della neve soffocante.
L'aveva sempre tormentato, quella bella neve. Non capiva per quale ragione non se ne andava in California. Rimaneva in Colorado invece, nella neve alta, perché ormai era troppo tardi. La neve bianca e bella era uguale alla moglie bianca e bella di Svevo Bandini, così bianca, così fertile, adagiata su un letto bianco nella casa in fondo alla strada. Al numero 456 di Walnut Street, Rocklin, Colorado.
L’aria gelata faceva lacrimare gli occhi di Svevo Bandini. Occhi scuri, occhi languidi, occhi di donna. Nascendo li aveva rubati alla madre, perché dopo la nascita di Svevo Bandini sua madre non era stata più la stessa, sempre inferma, sempre con gli occhi malati, finché era morta. Ed era toccato a Svevo avere languidi occhi scuri.
»
Aspetta primavera, Bandini, di John Fante - Patrizia

«Oggi è arrivata, proveniente da Firenze, una malata, una matta, giovane, fresca, alta con lo stampo della salute fisica.
Quando sono entrato nel reparto era seduta a letto e mangiava con golosità. Aveva la camicia aperta sì che si vedeva comodamente un seno. non aveva alcun pudore, neppure la finzione del pudore. È affetta da schizofrenia, quella malattia mentale che scompone la persona umana rendendola senza senso e senza scopo.
Tutti gli infermieri e le infermiere sono di origine contadina, di secolari famiglie contadine. È aprile, piove continuamente ed è tornato il freddo. Hanno il muso lungo per paura della brinata.
Il manicomio è su un colle, un piccolo colle, nella vasta pianura lucchese. Il colle si chiama S. Maria delle Grazie. Il paese più vicino è Magliano ed è questo nome che è celebre nella provincia di Lucca. Essere stati a Magliano significa, ridendo, essere stati matti.
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Le libere donne di Magliano, di Mario Tobino - Polyfilo

«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.»
I promessi sposi, di Alessandro Manzoni - Antonio

«Ottobre 2009

Erano passati quasi tre anni dall’ultima volta in cui Camilla e Stefano avevano percorso un tratto di strada insieme, da quella gelida mattina di marzo quando era arrivato trafelato in ospedale per portarla a casa con Cesare, il secondo figlio nato pochi giorni prima, che dormiva rannicchiato nell’ovetto. Un bambino di una bellezza non comune, che metteva quasi soggezione a guardarlo, perfetto in ogni minimo particolare ma strano nei comportamenti, con lo sguardo distante, difficile da trattare, un bambino autistico. E nonostante il dolore e la frustrazione, era stata proprio Camilla la prima ad accorgersi che c’era qualcosa in quel bambino che non girava per il verso giusto.»
Mamma disabilitata. Storia vera di una giovane coppia alla nascita di un figlio autistico, di Chiara Milizia - Cattivissimaprof

«Laurie Garvey hadn’t been raised to believe in the Rapture. She hadn’t been raised to believe in much of anything, except the foolishness of belief itself.

We’re agnostics, she used to tell her kids, back when they were little and needed a way to define themselves to their Catholic and Jewish and Unitarian friends. We don’t know if there’s a God, and nobody else does, either. They might say they do, but they really don’t.

The first time she’d heard about the Rapture, she was a freshman in college, taking a class called Intro to World Religions. The phenomenon the professor described seemed like a joke to her, hordes of Christians floating out of their clothes, rising up through the roofs of their houses and cars to meet Jesus in the sky, everyone else standing around with their mouths hanging open, wondering where all the good people had gone. The theology remained murky to her, even after she read the section on “Premillenial Dispensationalism” in her textbook, all that mumbo jumbo about Armageddon and the Antichrist and the Four Horsemen of the Apocalypse. It felt like religious kitsch, as tacky as a black velvet painting, the kind of fantasy that appealed to people who ate too much fried food, spanked their kids, and had no problem with the theory that their loving God invented AIDS to punish the gays. Every once in a while, in the years that followed, she’d spot someone reading one of the Left Behind books in an airport or on a train, and feel a twinge of pity, and even a little bit of tenderness, for the poor sucker who had nothing better to read, and nothing else to do, except sit around dreaming about the end of the world.

And then it happened. The biblical prophecy came true, or at least partly true. People disappeared, millions of them at the same time, all over the world. This wasn’t some ancient rumor—a dead man coming back to life during the Roman Empire—or a dusty homegrown legend, Joseph Smith unearthing golden tablets in upstate New York, conversing with an angel. This was real. The Rapture happened in her own hometown, to her best friend’s daughter, among others, while Laurie herself was in the house. God’s intrusion into her life couldn’t have been any clearer if He’d addressed her from a burning azalea.
»
The Leftovers, di Tom Perrotta - Valetta

«Stando a quanto sostiene un vicebidello dell’università di Maximegalon che bighellona spesso fuori dalle aule, l’universo ha più di sedici miliardi di anni. Questa pretesa verità è dileggiata da un gruppetto di poeti beat betelgeusiani che sostengono di essere in possesso di taccuini moleskine ben più antichi (tichi-tichi-tah). Diciassette miliardi, dicono, ed è anche poco, a quanto si deduce dalla copia in loro possesso dei cartigli del Wham Barn Bum Big Bang. Un ragazzino prodigio di razza umana una volta fissò la datazione a quattordici miliardi, basandosi su un complesso calcolo che teneva conto della densità della roccia lunare e della distanza fra due ragazze in età puberale su un orizzonte degli eventi. Uno degli dei minori di Asgard grugnì di aver letto da qualche parte qualcosa su un evento cosmico colossaluccio accaduto diciotto miliardi di anni fa, ma nessuno dà più grande peso alle asserzioni che vengono dai cieli dopo la caduta degli dei, o Thorgate, nome con cui il fattaccio balzò ai disonori della cronaca.
Quanti che fossero in realtà i miliardi, pur sempre di miliardi si trattava, e il vecchio sulla spiaggia mostrava tutti i segni di chi ha contato sulla punta delle dita almeno uno di questi milioni di milioni. Aveva la pelle bianco avorio incartapecorita e, visto di profilo, somigliava molto a una S maiuscola e tremolante. L’uomo ricordava di aver avuto un gatto, una volta, sempre che i ricordi si potessero considerare qualcosa di più che semplici configurazioni di neuroni disposte su trilioni di sinapsi. I ricordi non si potevano toccare con mano, non si avvertivano fisicamente come la spuma delle acque sulle sue dita nodose. Ma d’altro canto cos’erano le stesse sensazioni fisiche, se non ulteriori impulsi elettrici nel cervello? Perché fare affidamento su queste ultime, allora? Esisteva qualcosa di attendibile nell’universo cui aggrapparsi e afferrarsi nel bel mezzo di una tempesta farfallina, a parte un paravento hawaliusiano?
“Dannate farfalle” pensò l’uomo. Non appena avessero saputo di quella storia del battere le ali a un continente di distanza, milioni di lepidotteri si sarebbero organizzati per mettere in atto un piano malefico.
“Ecco, quella era una cosa che non poteva esistere nella realtà” si disse. “Tempeste farfalline?”
Ma poi altri neuroni accesero ulteriori sinapsi sussurrando qualcosa sulle teorie dell’improbabilità. Se una cosa era destinata a non accadere mai, allora quella cosa si sarebbe recisamente rifiutata di non accadere alla prima occasione possibile. Tempeste farfalline. Era solo questione di tempo.
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E un'altra cosa..., di Eoin Colfer - Daniele

«Anna incontra l'amica Molly nell'estate del 1957, dopo una separazione...

Le due donne erano sole nella casa di Londra.
"Il fatto è," disse Anna mentre l'amica tornava dal telefono sul pianerottolo, "il fatto è, o almeno io la vedo così, che il mondo sta andando a pezzi."
Molly era il tipo che sta sempre al telefono. Quando l'apparecchio cominciò a squillare stava appunto domandando : "E allora, che novità ci sono?" Ora disse: "Era Richard. Sta venendo qui. Pare che oggi sia il suo solo giorno libero da qui alla fine del mese. O almeno così sostiene."
"Bene. Io però non me ne vado," disse Anna.
"No, tu rimani esattamente dove sei."
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Il taccuino d'oro, di Doris Lessing - Morwen

«Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. Si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente. Poi andò a cercarsi un tetto; nell'osteria erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze da appigionare, ma, molto sorpreso e sconcertato da quel cliente tardivo, gli propose di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. accettò. Alcuni contadini erano ancora seduti davanti ai loro boccali di birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò lui stesso a prendersi il pagliericcio in solaio, e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, K. li guardò ancora per qualche minuto con gli occhi stanchi, poi s'addormentò. Ma poco dopo lo svegliarono.»
Il castello, di Franz Kafka - Tancredi

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