7 aprile 2014

Speciale Premio Pulitzer: L'uomo di Kiev - Bernard Malamud

Bernard Malamud nacque a Brooklyn nel 1914, figlio primogenito di una coppia di origini ebraiche arrivata negli Stati Uniti dalla Russia zarista, dove le numerose e antiche comunità di origine yiddish erano fatte periodicamente bersaglio di pogrom e altre forme di persecuzioni.
Dopo aver condotto studi umanistici, ebbe vari incarichi di insegnamento nelle scuole newyorkesi e americane, cominciando allo stesso tempo a pubblicare una produzione di short stories su varie riviste a partire dal 1943. Il successo si presentò alla sua attività di scrittore solo a partire dagli inizi degli anni '50, quando ricevette un generale consenso di critica per il suo primo romanzo pubblicato, Il migliore, del 1952. L'acme della sua produzione la raggiunse tuttavia con L'uomo di Kiev, per il quale ottenne il Premio Pulitzer nel 1964.

Tra le altre sue opere ricordiamo romanzi come 'Il commesso' del 1957 e Le vite di Dubin, del 1979, da lui stesso considerato il suo testo migliore, oltre a svariate raccolte di racconti, spesso di ambientazione yiddish, come Il barile magico, Prima gli idioti del 1963 e Foto da Fidelman: una mostra, del 1969, che nel complesso gli valsero numerosi premi come il National Book Award nel 1957, il 'Jewish Heritage Award' nel 1976 e il Premio Mondello nel 1985.


Yakov Bok, uomo mite e un pò debole, abbandonato dalla moglie e senza lavoro, cerca la fortuna in città, a Kiev. Una sera gli capita di salvare dalla morte un piccolo industriale ubriaco che, riconoscente, gli affida un posto di sorvegliante nella sua fabbrica. Questo lavoro attira a Yacov molte antipatie e, quando un giorno viene scoperto il cadavere dissanguato di un bambino, viene accusato di averlo ucciso per compiere un sacrificio rituale. L'odio razziale ha trovato il suo capro espiatorio. Mentre giudici e poliziotti forzano o inventano indizi, il 'caso Bok' diventa un pretesto di speculazione politica. Ma sarà proprio negli spietati meccanismi della persecuzione che Yacov troverà se stesso.

Recensione

La storia di Yakov Bok è una versione ucraina dell'affaire Dreyfus, con l'aggiunta della prigionia nelle carceri zariste, visto che la vicenda è ambientata prima della rivoluzione di Ottobre, e apre uno spiraglio su una realtà, la detenzione nella Russia degli zar, meno nota rispetto ai gulag di epoca staliniana.
Nello stesso tempo, nella parabola giudiziaria di un singolo, Malamud riepiloga tutta la tradizione dell'antisemitismo e la tragedia di un popolo e della cultura yiddish, interrogandosi sul senso di una sofferenza così profonda che trova un parallelo solo nella vicenda biblica di Giobbe, icona dell'ebreo pio che Dio mette alla prova con una serie di sciagure infinite e prive di ragioni semplicemente perché tale è il suo volere, senza che vi sia una qualunque forma di possibile redenzione a spiegare un destino così duro.
Dopo una breve sequenza sull'inizio delle catastrofi di Yakov Bok, un povero tuttofare emigrato per disperazione da uno shtetl sperduto nella pianura ucraina verso le sirene della metropoli, Kiev, l'autore torna indietro e riprende la vita del suo protagonista a partire dalle motivazioni che lo hanno spinto ad abbandonare un guscio povero ma a suo modo protetto come l'isolato villaggio rurale, quasi come se allontanarsi dal proprio ambiente naturale non potesse portare a null'altro che a un destino tragico.
Yakov è un tuttofare, che abbandonato dalla moglie da cui non riesce ad avere figli, sente la spinta a fuggire dalle ristrettezze, economiche e morali, della comunità ebraica in cui ha sempre vissuto per tentare la sorte trasferendosi a Kiev, la capitale, dove gli ebrei sono sottoposti a un regime di ghettizzazione: non possono abitare che in quartiere loro assegnato, non possono sposare donne russe, non possono muoversi senza un permesso di polizia e subiscono le periodiche persecuzioni dei pogrom, diventando in qualche modo il capro espiatorio di una situazione sociale non ancora pronta a esplodere ma in grado di sfogare sulla diversità il proprio malessere.
Eppure, proprio come un pesce che appena si stacca dal suo scoglio finisce per diventare preda di un pesce più grande: scappato dall'angusta ma protetta vita del borgo giudeo, Yakov, dopo un primo momento in cui la fortuna sembra arridergli, trova, seppure solo a condizione di nascondere le proprie origini, una speranza ma, quando alcune circostanze si combinano insieme in modo quasi casuale, tutto il mondo gli si rivolta contro.

Essere accusato di un delitto rituale per procurarsi sangue di bambini cristiani da impastare come pane azzimo, nella Russia dei famigerati quanto falsi 'Protocolli dei Savi di Sion', equivale a una condanna automatica. E per un innocente, per di più non ortodosso ma libero pensatore e ammiratore di un filosofo inviso agli Ebrei come Spinoza, sembra quasi uno sberleffo del Destino, quello di diventare vittima di un'accusa come quella.
A nulla vale che Bibikov, un magistrato coscienzioso e che ha in comune con l'accusato l'ammirazione per Spinoza, si adoperi per frenare le prevaricazioni dell'accusa, palesemente ispirata a un teorema di colpevolezza e alla volontà di blandire a scopi di carriera personale con l'antisemitismo l'opinione pubblica. A nulla vale che presto dai fatti emerga come in realtà il bambino, del cui omicidio il tuttofare giudeo era stato incolpato, fosse stato ucciso dalla madre stessa e da suoi complici per evitare che denunciasse i loro crimini: i testimoni favorevoli all'indiziato vengono allontanati e la madre snaturata viene trasformata da essere degenerato e violento in una povera donna privata del suo unico figlio, unico motivo per lei di vita.

Tutti sono contro il tuttofare, tutti hanno interesse a che confessi un delitto che non ha commesso e si addossi una colpa che non gli appartiene: la madre della vittima, ipocrita e addolorata, per coprire le proprie colpe, la figlia del padrone della fabbrica in cui Yakov ha trovato lavoro, nascondendo di essere ebreo, per vendicarsi di essere stata respinta, i suoi colleghi per disfarsi di un sorvegliante scomodo, le autorità infine, pronte a sfruttare il malcontento popolare per il proprio tornaconto, per trovare un capro espiatorio su cui la folla possa sfogare i suoi istinti più bassi.
Nella figura del tuttofare si combinano i tratti della vittima di una giustizia kafkiana e terrena, ispirata solo ai principi dell'opportunità personale e dell'utilità sociale invece che alla ricerca della verità e quelli di chi subisce i colpi di un destino inspiegabile e che sembra quasi voluto per mettere alla prova la capacità di resistenza di un individuo, la cui unica colpa è di aver cercato di allontanarsi dalle proprie origini, ma non di rinnegarle.
Yakov rimane ebreo nell'animo nonostante in qualche modo odi questa parte di sé: fugge davanti a una donna che vorrebbe avere rapporti con lui durante il periodo mestruale, si sente in colpa per aver nascosto la propria appartenenza etnica per ottenere un posto di lavoro da un noto antisemita, durante la prigionia trae conforto, anche se non spirituale, dalla sua cultura biblica, riesce a respingere la follia recitando i brani dei Salmi che aveva imparato fin da ragazzo.
E nello stesso tempo quando riceve da un carceriere un libro con i Vangeli, perchè possa pentirsi dei suoi peccati e convertirsi al cristianesimo, leggendo la storia di Gesù abbandonato dal Padre sulla croce come 'agnello che toglie i peccati del mondo' si rivede in quella figura, abbandonato com'è anche lui dal suo Dio, privo di qualsiasi contatto con il mondo esterno, di qualsiasi appiglio a cui legare una speranza di salvezza.

Capro espiatorio di tutta una società, Yakov Bok vive sulla sua pelle il risultato del pregiudizio più becero e dannoso: la maggior parte delle accuse contro di lui trova il suo fondamento nel fatto che è risaputo per tutti che tra gli Ebrei vige l'usanza di impastare le focacce pasquali con il sangue di bambini cristiani. Attorno a questa forma di ignoranza superstiziosa si raccolgono interessi personali e varie altre motivazioni ma il nucleo dell'accusa rimane una semplice voce popolare.

Struggente il racconto della prigionia, del malessere fisico e mentale che il tuttofare si trova ad affrontare, privato di ogni contatto umano, di ogni conforto, del cibo e della luce, costretto a vivere nel freddo dei gelidi inverni sarmatici, quasi fino al punto di perdere ogni forma di umanità in una cella in cui manca ogni forma di igiene e anche il cibo scarseggia, dove l'accusato viene perquisito a fondo sei volte al giorno e in un caso subisce anche un tentativo di avvelenamento.

Il racconto della vita quotidiana e dei deliri del prigioniero, cui tocca aspettare quasi due anni senza poter ricevere visite e senza neppure avere un atto d'accusa ufficiale a suo carico è davvero realistico e insieme struggente, così come è struggente vedere come anche il trattamento più duro non riesca a spegnere l'ultima scintilla di speranza nell'animo di Yakov.
Ma rimane al giudizio del lettore stabilire se quello che esce dalla prigione, quando alla fine viene liberato, soprattutto perché è venuta meno la pressione politica che spingeva il tuttofare verso la confessione di un crimine che non aveva commesso, sia o no ancora un uomo.

Giudizio:

+4stelle+ (e mezzo)

Dettagli del libro

  • Titolo: L'uomo di Kiev
  • Titolo originale: The Fixer
  • Autore: Bernard Malamud
  • Traduttore: Ida Omboni
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 1997
  • Collana: Einaudi tascabili
  • ISBN-13: 9788806138196
  • Pagine: 259
  • Formato - Prezzo: Brossura - 12.33 Euro (fuori catalogo)

0 Commenti a “Speciale Premio Pulitzer: L'uomo di Kiev - Bernard Malamud”

Posta un commento

 

La Stamberga dei Lettori Copyright © 2011 | Template design by O Pregador | Powered by Blogger Templates