8 settembre 2011

Angolotesti: "Il cavaliere doppio" di Théophile Gautier

Buongiorno a tutti i nostri lettori,
torna oggi Angolotesti, una selezione di testi letterari o poetici nella loro interezza con una breve contestualizzazione perché possiate meglio apprezzarli. Per questo quinto appuntamento ho selezionato il racconto di un autore non troppo conosciuto, soprattutto all'esterno della cerchia degli appassionati di letteratura francese. Si tratta dello scrittore -ma anche critico, poeta, pittore, giornalista- Théophile Gautier, esponente del Romanticismo francese ma figura ispiratrice di autori appartenenti a correnti letterarie diverse, quali il Parnassianesimo, il Simbolismo, il Decadentismo e il Modernismo. I racconti di Gautier sono di diverso tenore, ma si può notare una certa propensione (tipicamente romantica) all'onirico e al visionario, al sovrannaturale, alle passioni morbose rivolte a perfette bellezze femminili. A volte gli oggetti si animano, prendendo sembianze umane; o si staccano provocanti figure femminili dagli arazzi; diavoli o vampiri attentano alle virtù di nobili personaggi; o, anche questo tratto spiccatamente romantico, Gautier ridipinge personaggi -attestati o inventati- calati in un contesto storico precedente, come l'Egitto, la Grecia antica, la Roma imperiale, o, nel caso del racconto selezionato (pubblicato per la prima volta nel 1840 sulla rivista
Musée des familles), la Norvegia feudale.

Nota: la fonte del seguente testo è il sito raccontienovelle, che purtroppo non riporta il nome del traduttore del racconto né l'edizione da cui è tratto.



Il cavaliere doppio


  

Per quale ragione la bionda Edwige è così triste? Che cosa fa, seduta in disparte, con il mento nella mano e il gomito sul ginocchio, più tetra della disperazione, più pallida della statua di alabastro che piange su una tomba?

   Dall'angolo della palpebra una grossa lacrima scorre sulla peluria della guancia, una sola, ma inesauribile. Come la goccia d'acqua che trasuda da una volta rocciosa e che a lungo andare corrode il granito, quell'unica lacrima, cadendo senza tregua dagli occhi sul cuore, l'ha forato fino a trafiggerlo.

   Edwige, bionda Edwige, non credi più a Gesù Cristo, il dolce Salvatore? Dubiti dell'indulgenza della Santa Vergine Maria? Perché porti continuamente al fianco le tue piccole mani diafane, smagrite e sottili come quelle degli Elfi o delle Willi?

   Stai per diventare madre. Era il tuo più ardente desiderio: il tuo nobile sposo, il conte Lodborg, ha promesso un altare d'argento massiccio e un ciborio d'oro fine alla chiesa di Sant'Euthbert, se tu gli avessi dato un figlio.

   Ahimè! Ahimè! La povera Edwige ha il cuore trafitto dalla spada dei sette dolori; un terribile segreto pesa sulla sua anima.

   Qualche mese fa uno straniero è giunto al castello. Faceva un tempo orribile, quella notte: le torri tremavano dalle fondamenta, le banderuole cigolavano, il fuoco serpeggiava su per il camino, e il vento batteva contro il vetro come un importuno che voglia entrare.

   Lo straniero era bello come un angelo, ma come un angelo caduto, dolcemente sorrideva e dolcemente guardava, ma quel suo sguardo e quel suo sorriso ti agghiacciavano di terrore e ispiravano lo spavento che si prova sporgendosi su un abisso. Una grazia nefanda, un perfido languore come quello della tigre che spia la preda, accompagnavano ogni suo movimento: incantava come il serpente incanta l'uccello.

   Quello straniero era un maestro cantore; dal suo incarnato scuro si capiva che aveva visto altri cieli. Diceva di venire dalla remota Boemia e chiedeva ospitalità solo per quella notte.

   Restò quella notte, e ancora altri giorni e ancora altre notti, perché la tempesta non si placava mai e il vecchio castello tremava dalle fondamenta come se una raffica avesse voluto sradicarlo e far cadere la sua corona merlata nelle acque schiumeggianti del torrente.

   Per ingannare il tempo, cantava strane poesie che turbavano il cuore e suscitavano idee esaltate. Per tutto il tempo che cantava, un corvo nero, lucido e brillante come l'ebano, stava sulla sua spalla. Con il becco nero segnava il tempo e sembrava che applaudisse e scuotesse le ali. Edwige impallidiva, impallidiva come i gigli del chiar di luna; Edwige arrossiva, arrossiva come le rose dell'aurora e si lasciava andare riversa nella grande poltrona, languente, come morta, inebriata quasi avesse respirato il profumo fatale di quei fiori che fanno morire.

   Finalmente il maestro cantore poté partire; un leggero sorriso azzurro aveva rasserenato la faccia del cielo. Da quel giorno Edwige, la bionda Edwige, non fa che piangere accanto alla finestra.

   Edwige è madre. Ha un bel bambino bianco e vermiglio. Il vecchio conte Lodborg ha ordinato al fonditore l'altare d'argento massiccio e in una borsa di pelle di renna ha dato mille monete d'oro all'orafo per il ciborio; sarà largo e pesante e conterrà una notevole quantità di vino. Il prete che lo vuoterà potrà dire di essere un buon bevitore.

   Il bambino è tutto bianco e vermiglio, ma ha lo sguardo nero dello straniero: l'ha ben visto, la madre. Povera Edwige! Perché aveva guardato tanto lo straniero con la sua arpa e il suo corvo?

   Il cappellano battezza il bambino; lo chiamano Oluf, un gran bel nome! L'astrologo sale sulla torre più alta per fargli l'oroscopo.

   Il tempo è freddo e chiaro; come una mascella di lince dai denti aguzzi e bianchi, il profilo frastagliato delle montagne innevate morde l'orlo della veste del cielo. Le stelle larghe e pallide brillano nel crudo blu della notte come tanti soli argentei.

   L'astrologo misura l'altezza degli astri, annota l'anno, il giorno e il minuto; fa lunghi calcoli con l'inchiostro rosso su una lunga pergamena tutta costellata di segni cabalistici; torna nel suo laboratorio e risale sulla piattaforma. Eppure non si è sbagliato nei calcoli: il suo tema della natività è esatto come una bilancia per pietre fini. Ma ricomincia da capo: no, non ha fatto errori.

   Il piccolo conte Oluf ha una doppia stella, una verde e una rossa, verde come la speranza, rossa come l'inferno: una favorevole, l'altra infausta. Chi ha mai visto un bambino con una doppia stella?

   Con aria grave e compassata l'astrologo torna nella camera della puerpera e passandosi la mano ossuta fra le onde della sua grande barba di mago, dice:

   «Contessa Edwige, e lei, conte Lodborg: Oluf, il vostro prezioso figliolo, ha subìto alla nascita due influssi, uno buono e l'altro cattivo. Ciò spiega le sue due stelle, una verde e l'altra rossa. Egli è soggetto a un duplice ascendente; sarà molto felice o molto infelice, difficile a dirsi. Forse tutte e due le cose insieme».

   Il conte Lodborg risponde all'astrologo: «La stella verde avrà il sopravvento». Ma nel suo cuore di madre, Edwige temeva che ad avere la meglio sarebbe stata quella rossa. Di nuovo posò il mento sulla mano, il gomito sul ginocchio e ricominciò a piangere accanto alla finestra. Dopo aver allattato il piccino, la sua unica occupazione consisteva nel guardare attraverso i vetri la neve che scendeva a fiocchi fitti e vorticosi, come se lassù avessero spennato le bianche ali di tutti gli angeli e di tutti i cherubini.

   Di tanto in tanto un corvo passava davanti ai vetri gracchiando e scuotendo quella polvere argentata. Ciò ricordava a Edwige lo strano corvo sempre appollaiato sulla spalla dello straniero dal dolce sguardo di tigre, dal sorriso ammaliatore di vipera.

   E le lacrime le cadevano più veloci dagli occhi sul cuore, sul cuore trafitto.

   Il piccolo Oluf è un bambino molto strano: nella sua pelle bianca e vermiglia sembra che convivano due bambini dal carattere opposto: un giorno è buono come un angelo, un altro è cattivo come un demonio, morde il seno della madre, e con le unghie graffia il viso della governante.

   Il vecchio conte Lodborg, sorridendo tra i baffi grigi, dichiara che per quel suo spirito bellicoso Oluf sarà un buon soldato. Il fatto è che Oluf è un caratterino insopportabile: ora piange, ora ride, capriccioso come le nuvole, lunatico come una donna. Va, viene, si ferma di botto senza motivo apparente, pianta lì quello che ha appena cominciato e alla turbolenza più irrequieta fa seguire un'immobilità assoluta. Anche se è solo, sembra che stia conversando con un interlocutore invisibile. Quando gli chiedono perché sia tanto agitato, risponde che la stella rossa lo tormenta.

   Oluf è quasi quindicenne. Il suo carattere diventa sempre più inesplicabile. Ha un viso bellissimo, ma la sua espressione mette a disagio; è biondo come la madre, con tutte le caratteristiche della razza nordica, ma sotto la sua fronte bianca come la neve non ancora scalfita dai pattini del cacciatore o non ancora maculata dalle zampe dell'orso, fronte tipica dell'antica razza dei Lodborg, scintillano fra le palpebre dorate gli occhi dalle lunghe ciglia nere, occhi di carbone accesi dai selvaggi ardori della passione italiana, uno sguardo vellutato, crudele e dolce come quello del maestro cantore di Boemia.

   Come volano via i mesi e ancor più gli anni! Edwige riposa ora sotto le volte tenebrose della tomba dei Lodborg, accanto al vecchio conte che sorride nella bara perché il suo nome non perirà. Era già così pallida che la morte non l'ha molto cambiata. Distesa sulla sua tomba c'è una bella statua con le mani giunte e i piedi posati su un piccolo levriero bianco, fedele compagno dei defunti. Ciò che Edwige ha detto nella sua ultima ora nessuno lo sa, ma il prete che l'ha confessata è diventato ancor più pallido della morente.

   Oluf, il figlio bruno e biondo di Edwige la desolata, oggi ha vent'anni. È abilissimo in qualsiasi esercizio: nessuno tira d'arco meglio di lui; riesce a fendere la freccia che vibrando è andata a conficcarsi al centro del bersaglio; senza morso né speroni doma i cavalli più selvaggi.

   Non ha mai guardato impunemente una donna o una fanciulla, ma di quelle che l'hanno amato nessuna è stata felice. La fatale instabilità del suo carattere fa sì che con una donna ogni felicità sia impossibile. Una metà di lui prova passione, l'altra odio. A volte prevale la stella verde, a volte la stella rossa.

   Un giorno magari dice: «Oh, bianche vergini del nord, scintillanti e pure come i ghiacci del polo; occhi da chiar di luna; guance soffuse dei freschi colori dell'aurora boreale!». E un altro giorno esclama: «Oh, figlie d'Italia, dorate dal sole e bionde come l'arancia! Cuori ardenti in bronzei petti!».

   La cosa più triste è che ogni volta è sincero.

   Ahimè! Voi povere anime afflitte, tristi ombre lamentose, nemmeno l'accusate perché sapete che è lui il più infelice: il suo cuore è un terreno calpestato senza tregua dai piedi di due ignoti lottatori, e ciascuno dei due, come nella lotta tra Giacobbe e l'Angelo, cerca di colpire il garretto del suo avversario.

   Se si andasse al cimitero, sotto le foglie frastagliate del verbasco vellutato, sotto l'asfodelo dai rami di un verde malsano, tra l'avena selvatica e le ortiche, si troverebbe più di una abbandonata su cui solo la rugiada del mattino versa le sue lacrime. Mina, Dora, Tecla! Quanto peserà la terra sul vostro seno delicato e il vostro bel corpo?

   Un giorno Oluf chiama Dietrich, il fedele scudiero, e gli dice di sellare il cavallo.

   «Padrone, guardi come cade la neve, come sibila il vento piegando fino a terra la cima degli abeti. Non sente lontano ululare i lupi famelici e bramire come anime in pena le renne agonizzanti?»

   «Dietrich, mio fedele scudiero, scrollerò la neve come si fa con la peluria che si attacca al mantello; passerò sotto l'arco degli abeti abbassando il pennacchio dell'elmo. Quanto ai lupi, le loro unghie si spunteranno su questa robusta armatura, e frugando nel ghiaccio con la punta della spada, scoprirò il muschio fresco e fiorito per la povera renna che geme e piange a calde lacrime non riuscendo a raggiungerlo».

   Il conte Oluf di Lodborg, poiché questo è il suo titolo da quando il vecchio conte è morto, parte sul suo bravo cavallo, accompagnato da Murg e Fenris, i suoi due cani giganteschi, giacché il giovane signore dalle palpebre dorate ha un appuntamento, e forse, dall'alto dell'aguzza torretta a forma di cono già si affaccia al balcone scolpito, nonostante il freddo e la tramontana, la fanciulla inquieta, cercando di intravedere nel bianco della pianura il pennacchio del cavaliere.

   Sul suo gigantesco cavallo di cui pungola i fianchi con gli sproni, Oluf avanza nella campagna. Attraversa il lago, che per il freddo è diventato un sol blocco di ghiaccio dove i pesci sono incastrati con le pinne tese, come pietrificazioni in una massa marmorea. I quattro ferri del cavallo, muniti di uncini, mordono saldamente la dura superficie. Una sorta di nebbia, prodotta dal sudore e dal respiro, avvolge l'animale e lo segue: pare che galoppi in una nuvola. Dalle loro narici sanguinolente, Murg e Fenris, ai fianchi del padrone, emettono lunghi aliti fumanti, come animali favolosi.

   Ecco il bosco di abeti. Simili a spettri tendono le loro braccia su cui grava il peso di bianche coltri di neve che curvano le più giovani e le più flessibili, formando come una lunga volta argentea. Il cupo terrore regna nella foresta dove le rocce assumono forme mostruose, dove ogni albero, con le sue radici, sembra covare ai propri piedi un nido di draghi intorpiditi. Ma Oluf non conosce il terrore.

   Il sentiero si fa sempre più stretto, gli abeti intrecciano inestricabilmente i rami gemebondi; rare schiarite permettono appena di vedere la catena di colline innevate che si stagliano contro il cielo buio e cupo, in bianche ondulazioni.

   Per fortuna Mopse è un vigoroso corsiero che porterebbe senza flettere il gigantesco Odino. Nessun ostacolo lo arresta: salta oltre le rocce, scavalca fossi e ogni tanto strappa ai sassi, che lo zoccolo urta sotto la neve, spruzzi di scintille, subito spente.

   «Forza, Mopse, coraggio! Ti resta solo da attraversare la breve pianura e il bosco di betulle. Poi una bella mano carezzerà il tuo collo lucente e in una calda scuderia mangerai in abbondanza orzo perlato e avena».

   Che magnifico spettacolo il bosco di betulle! Una bambagia di brina copre tutti i rami. Il minimo ramoscello si profila bianco nell'aria scura: sembra un immenso cesto di filigrana, una madrepora d'argento, una grotta con tutte le sue stalattiti. Le ramificazioni e i fiori bizzarri di cui il gelo inargenta i vetri non compongono disegni più vari e complicati.

   «Signor Oluf, com'è in ritardo! Avevo paura che l'orso della montagna le avesse sbarrato la strada o che gli elfi l'avessero invitata a danzare», disse la giovane castellana facendo accomodare Oluf nella poltrona di quercia all'interno del caminetto. «Ma perché è venuto a un appuntamento d'amore con un compagno? Aveva forse paura di attraversare da solo la foresta?»

   «Di quale compagno intende parlare, fiore della mia anima?», chiese sorpreso Oluf alla giovane castellana.

   «Del cavaliere della stella rossa che porta sempre con sé. Quello che è nato da uno sguardo del cantore boemo, lo spirito funesto che la possiede. Si liberi di lui o non darò mai più ascolto alle sue parole d'amore. Non posso appartenere a due uomini insieme».

   Per quanto facesse e dicesse, Oluf non riuscì neanche a baciare il roseo mignolo della mano di Brenda, e se ne andò corrucciato e deciso a combattere il cavaliere dalla stella rossa, se mai l'avesse incontrato.

   Nonostante la brusca accoglienza di Brenda, l'indomani Oluf riprese la strada del castello dalle torrette coniche: gli innamorati non si scoraggiano facilmente.

   Via facendo si diceva: «Brenda deve essere pazza. E che cosa intende dire con il suo cavaliere dalla stella rossa?».

   La tempesta infuriava: i turbini di neve consentivano appena di distinguere la terra dal cielo. Nonostante i latrati di Fenris e di Murg che saltavano in aria per afferrarli, una spirale di corvi volteggiava infausta sopra il pennacchio di Oluf. Li guidava il corvo lucente come il giaietto che batteva il tempo sulla spalla del cantore boemo.

   Improvvisamente Fenris e Murg si fermarono: le loro narici frementi fiutavano inquiete l'aria subodorando una presenza nemica.

   «Non può essere né un lupo né una volpe: di un lupo e una volpe farebbero un sol boccone, i miei bravi cani».

   Si sentì un rumore di passi e poco dopo, a una svolta della strada, comparve un cavaliere su un imponente cavallo, seguito da due enormi cani. Si poteva facilmente scambiare per Oluf. Era armato esattamente nello stesso modo, e sulla sopravveste era decorato lo stesso blasone, solo che sull'elmo aveva un pennacchio rosso anziché verde. La strada era così stretta che uno dei due cavalieri doveva per forza cedere il passo.

   «Signor Oluf, si faccia indietro per lasciarmi passare», disse il cavaliere con la visiera calata. «Sto facendo un lungo viaggio: mi aspettano e non posso tardare».

   «Per i baffi di mio padre, sarà lei a farsi indietro. Io vado a un appuntamento d'amore, e gli innamorati hanno fretta», rispose Oluf impugnando l'elsa della spada.

   Lo sconosciuto sfoderò la sua e il duello ebbe inizio. Le spade, abbattendosi sulle maglie d'acciaio, ne facevano sprizzare fasci di scintille crepitanti: ben presto, per quanto di tempra eccellente, furono intaccate come seghe. Attraverso il vapore che esalava dai cavalli e dalle loro froge ansimanti, i duellanti sembravano due neri fabbri che si accanissero su un ferro rovente. I cavalli, spinti dallo stesso furore dei padroni, si mordevano con foga i colli pulsanti di sangue e si strappavano brandelli di carne dal petto. Si muovevano con scarti violenti, si drizzano sulle zampe posteriori, e usando gli zoccoli come pugni chiusi, si scambiavano colpi tremendi, mentre i loro cavalieri si vibravano furiosi fendenti sopra le loro teste; i cani erano un sol moro e un solo ululato.

   Le gocce di sangue, stillando attraverso le scaglie delle armature e cadendo ancora tiepide sulla neve, vi formavano piccoli fiori rosa. Dopo pochi istanti sembrava di vedervi un setaccio, tanto le gocce cadevano fitte e veloci. I due cavalieri erano feriti.

   Cosa strana, Oluf sentiva i colpi inferti all'ignoto cavaliere, soffriva delle ferite che procurava e di quelle che riceveva. Aveva avvertito un gran freddo nel petto, come se una lama vi fosse penetrata e cercasse il cuore, e tuttavia alla sua altezza la corazza non era forata. Solo il braccio destro era ferito. Singolare duello, in cui il vincitore soffriva quanto il vinto e in cui dare o ricevere era la stessa cosa.

  Raccogliendo le forze Oluf fece volar via con un manrovescio il terribile elmo del suo avversario. Quale terrore! Che cosa vide il figlio di Edwige e di Lodborg?

   Vide se stesso davanti a sé: uno specchio sarebbe stato meno fedele. Si era battuto con il proprio spettro, con il cavaliere dalla stella rossa. Lo spettro lanciò un gran grido e scomparve. La spirale di corvi risalì in cielo e il valoroso Oluf seguitò il suo cammino.

   La sera, tornando al castello, portava in groppa la giovane castellana che questa volta gli aveva dato ascolto. Poiché il cavaliere dalla stella rossa non c'era più, si era decisa a lasciar cadere sul cuore di Oluf, dalle proprie labbra di rosa, quella confessione che tanto costa al pudore. La notte era chiara e azzurrina. Oluf alzò la testa per cercare la sua doppia stella e farla vedere alla fidanzata: non c'era che la stella verde, quella rossa era scomparsa.

   Entrando nel castello, Brenda, felice per quel prodigio che attribuiva all'amore, fece notare al giovane Oluf che il nero dei suoi occhi si era mutato in azzurro, segno di riconciliazione celeste.

   Nella sua tomba il vecchio Lodborg sorride contento sotto i bianchi baffi, perché in verità, anche se non l'aveva mai dato a vedere, a volte gli occhi di Oluf lo avevano impensierito. L'ombra di Edwige è gioiosa, perché il figlio del nobile signore Lodborg ha vinto finalmente la maligna influenza della palpebra dorata, del corvo nero e della stella rossa: l'uomo ha sconfitto l'incubo.

   Questa storia sta a dimostrare quanta influenza possano avere un solo momento d'oblio, uno sguardo anche innocente.

   Giovani donne, non posate mai gli occhi suoi maestri cantori di Boemia che recitano poesie inebrianti e diaboliche. Voi, fanciulle, fidatevi solo della stella verde. E voi, che avete la sfortuna di essere doppi, combattete valorosamente l'avversario che è dentro di voi, il cattivo cavaliere, quand'anche doveste colpire voi stessi e ferirvi con la vostra stessa spada.

   Se vi chiedete chi ci ha portato questa leggenda dalla Norvegia, sappiate che è un cigno: un bell'uccello dal becco giallo, che ha attraversato il fiordo, metà nuotando, metà volando.



Pierre Jules Théophile Gautier, scrittore, poeta, critico letterario e giornalista, nacque a Tarbes nel 1811. Cresciuto a Parigi, influenzato dalla conoscenza del poeta Nerval e di Victor Hugo, nel 1830 partecipò a quella che sarebbe passata alla storia come la Battaglia di Hernani (dal nome del dramma di Hugo), querrelle tra Romantici e Illuministi che segnò l'avvento in Francia del Romanticismo, di cui Gautier fu acceso esponente. Il 1830 è l'anno delle sue Poésies, passate inosservate a causa del giorno della loro pubblicazione: il 28 luglio, data della presa dell'Hotel de Ville di Parigi. Tra il 1836 e il 1866 si dedicò soprattutto alla prosa e al giornalismo (quest'ultimo per ragioni finanziarie), pubblicando su rivista -interi o a puntate- romanzi e racconti: tra questi citiamo Mademoiselle de Maupin, La catena d'oro, Una notte di Cleopatra, Arria Marcella, Avatar, Tiburzio, Il vello d'oro, nonché il suo più famoso romanzo Capitan Fracassa. Bibliotecario della principessa Mathilde, Gautier fu ospite fisso del suo salotto letterario, frequentato -tra gli altri- da Hippolyte Taine, i fratelli Goncourt, Baudelaire (che si considerò suo discepolo tanto da dedicargli I fiori del male), Flaubert e Dumas figlio. I viaggi in Spagna, Algeria, Italia, Grecia, Turchia, Russia, Egitto alimentarono le sue successive raccolte poetiche e soprattutto costituirono prezioso materiale per i suoi racconti. La morte lo colse nel 1872 a Neuilly a causa degli scompensi cardiaci di cui soffriva, impedendogli di terminare la Storia del Romanticismo a cui stava lavorando.
Gautier si impone nella memoria del lettore per il suo stile ricercato e preziosissimo, in grado di innalzare le figure femminili descritte a divine opere d'arte e di restituire in modo perfettamente fiammingo paesaggi e arredamenti su cui si sofferma. I motivi del morboso, del doppio, dell'onirico e del sovrannaturale si intrecciano a ricostruzioni storiche meticolosamente idealizzate (quasi fossero quadri preraffaelliti) e al tema dell'amore inattuabile, spesso rivolto a un ideale impossibile da calare nel reale.

3 Commenti a “Angolotesti: "Il cavaliere doppio" di Théophile Gautier”

  • 14 settembre 2011 alle ore 14:37
    polyfilo says:

    a leggerlo sembra una versione romanticheggiante del raccconto di Poe 'William Wilson'

    la radice di tutte le storie sui doppelganger?

  • 14 settembre 2011 alle ore 18:41
    sakura87 says:

    Eh be', il tema del doppio (la scissione dell'io) è tipicamente romantico. Credo comunque che quello di Poe venga prima.

  • 16 gennaio 2013 alle ore 17:53
    Lunaspina says:

    Qualcuno sa dirmi dove trovare la versione originale in francese?

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