1 maggio 2011

La vetrina degli incipit - Aprile 2011

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...






***

«Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell'arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s'udì e crebbe rapidamente il rumore d'una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva avesse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall'arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.
"Don Salvatore?... Che c'è?... Che novità?..."
Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro.
Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia, una quantità d'altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, interrottamente:
"La principessa... Morta d'un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza..."
"Gesù!... Gesù!..."
»
I Vicerè, di Federico de Roberto - Sakura

«Eravamo in quattro: Giorgio, Guglielmo Samuele Harris, io e Montmorency. Seduti nella mia stanza, si fumava e si parlava di come stessimo male... male, intendo, rispetto alla salute.
Ci sentivamo tutti fiaccati e ne eravamo impensieriti. Harris diceva che a volte si sentiva assalito da tali strani accessi di vertigine, che sapeva a pena che si facesse; e poi Giorgio disse che anche lui era assalito da accessi di vertigine e appena sapeva anche lui che si facesse. Io poi avevo il fegato ammalato. Sapevo di avere il fegato ammalato, perché avevo appunto letto un annuncio di pillole brevettate nel quale si specificavano minutamente i vari sintomi dai quali il lettore poteva arguire d’avere il fegato malato. Io li avevo tutti. È strano, ma non mi avviene mai di leggere un annuncio di specialità brevettate, senza sentirmi tratto alla conclusione d’essere affetto dalla peculiare malattia — nella sua forma più virulenta — che forma il soggetto dell’annuncio. A ogni modo, la diagnosi par che corrisponda sempre esattamente a tutte le mie particolari sensazioni.
»
Tre uomini in barca, di Jerome Kaplka Jerome - Livia Medullina

«Era meglio se i miei restavano a New York dove si erano conosciuti e sposati e dove sono nato io. Invece se ne tornarono in Irlanda che io avevo quattro anni, mio fratello Malachy tre, i gemelli Oliver e Eugene appena uno e mia sorella Margaret era già morta e sepolta.
Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.
Gente che si vanta o si lamenta delle tribolazioni patite nei primi anni di vita se ne trova dappertutto, ma niente regge il confronto con la versione irlandese: la povertà; il padre alcolizzato chiacchierone e buono a nulla; la madre pia e derelitta che geme accanto al fuoco; i preti boriosi; i maestri arroganti; gli inglesi e le cose tremende che ci hanno fatto per ottocento lunghi anni…
E poi, tutta quell’umidità.
Sull’oceano Atlantico si formavano grandi quinte di pioggia che risalivano lentamente il fiume Shannon per stabilirsi a Limerick in eterno. La pioggia bagnava la città dalla Circoncisione a Capodanno, scatenando uno sgangherato concerto di tossi secche, raspi bronchiali, rantoli asmatici e gracchi tubercolotici.
»
Le ceneri di Angela, di Frank McCourt - Vittoria A.

«Di nome faceva Eugenio, di cognome Benedetti, come suo padre; il quale diceva che, se invece fosse vissuto in una di quelle isole del Pacifico dove comandano le donne, avrebbe fatto Montevecchi come sua madre; ma poi neanche: avrebbe fatto Marzoli, come sua nonna, come aveva visto sulla lapide il 2 novembre, la festa dei morti: perché poi i morti festeggiavano?
Eugenio Benedetti era sempre stato felice, prima di Cernobyl, anche ai tempi della guerra e del passaggio del fronte: della guerra ricordava nitidamente alcuni episodi bellissimi, difficile dire adesso se li avesse vissuti veramente o solo attraverso i racconti del padre: che, essendo un poeta, guardava ogni cosa da poeta. Una sera ad esempio, nella loro casa edificata all'ombra del campanile si era sentito improvvisamente il motore di un aeroplanino, che Papà aveva chiamato familiarmente Gigetto come se fosse un suo compagno d'infanzia o un socio del Circolo cittadino; e subito dopo, invece delle bombe erano venute giù delle serpentine di luce bianca dal cielo, come lo spirito santo sugli apostoli; (...)
»
Il padre dei nomi, di Paolo Teobaldi - Desian

«Io sono nato nella città di Bombay... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l'ora? Anche l'ora è importante. Be', diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi... Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell'orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell'istante preciso in cui l'India pervenne all'indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E, fuori dalla finestra, folle e fuochi d'artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese. Nei tre decenni successivi non avrei avuto scampo.»
I figli della mezzanotte, di Salman Rushdie - Tancredi

«"Lasciate ogne speranza, o voi ch'entrate", è scarabocchiato in lettere rosso sangue sul lato del Chemical Bank vicino all'angolo tra l'Undicesima e la Prima ed è scritto con caratteri sufficientemente grandi da poter essere letti dal sedile posteriore del taxi che procede a singhiozzo nel traffico, allontanandosi da Wall Street; non appena Tim Price nota le parole un autobus avanza, la pubblicità di 'I Miserabili' sulla fiancata ne blocca la vista, ma Price, che lavora da Pierce & Pierce e ha ventisei anni, non sembra preoccuparsene, perché dice all'autista che gli avrebbe dato cinque dollari per alzare il volume della radio, 'Be my babe' in onda su WYNN, e l'autista, nero, non americano, esegue.
"Sono pieno di risorse", sta dicendo Price "Sono creativo, sono giovane, privo di scrupoli, altamente motivato e altrettanto capace. In sostanza quello che sto affermando è che la società non può permettersi di perdermi. Sono una risorsa".
»
American Psycho, di Bret Eston Ellis - Polyfilo

«La vecchia camminava da tempo immemorabile.
Un colpo secco, null’altro.”
I piedi nudi accarezzavano l’erba profumata, ma il suo corpo non pareva nemmeno accorgersene: con la schiena curva, i capelli spenti e la pelle avvizzita, la donna dava l’impressione di portare sulle spalle una stanchezza inumana; aveva gli arti intorpiditi dal freddo, eppure continuava a camminare, guidata solamente dall’inerzia dei propri passi.
Era bastato il suono di un respiro spezzato, e quella stessa notte, tutto era morto. Ancora una volta, tutto era morto.
In pochi, impalpabili istanti, nuvole nere avevano preso il posto dell’astro celeste, nuvole colme di lacrime e urla, perché di lì a poco si sarebbe scatenato il dolore del cielo.
Così, nell’attesa di un temporale senza fine, curvati dal vento e da grida lontane, i rami della foresta graffiarono il cielo, in cerca di perdono.
»
Le voci di Nike, di Silvia M. Damiani - Morwen

«Avevo divorato, mentre mi bevevo il caffè, il giornale del mattino, ma, tanto per rimandare l'inizio della giornata lavorativa, mi misi a leggere attentamente gli annunci economici. A un tratto il mio sguardo rimase inchiodato su questo annuncio: Taglio teste. Seguito dal numero di cellulare. L'annuncio compariva nella rubrica "Servizi".»
Il servizio (Mitologia del tempo che cambia), di Alek Popov - Lorenzo Pompeo

«Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni e da più di undici sono un'assistente. Sembra un periodo piuttosto lungo, lo so, ma loro vogliono che continui per altri otto mesi, fino alla fine di dicembre. A quel punto saranno trascorsi quasi esattamente dodici anni. Adesso mi rendo conto che il fatto che io sia rimasta per tutto questo tempo non significa affatto che loro abbiamo stima di me. Ci sono ottime assistenti a cui è stato chiesto di abbandonare dopo appena due o tre anni. E poi me ne viene in mente almeno una che ha operato per almeno quattordici anni nonostante fosse un'assoluta nullità.
Non lasciarmi, di Kazuo Ishiguro - Valetta

«Beatrice

Una ragazza con un bell'abito medioevale sta leggendo i tarocchi su un tavolino. Canta:
"Fior di vaniglia
Il tempo passa e nessuno mi si piglia
Si sposan tutte quante
E a me mi tocca di aspettare Dante".
[con lieve accento toscano] Oh, è curiosa la vita nel Medioevo. Che poi Medioevo lo dite voi, io dico milleduecentottantaquattro, poi voi lo chiamerete come vi pare, le epoche gli si dà nome dopo. Le dittature, ad esempio, se ne parla male solo dopo, intanto tutti se le puppano.»
Le Beatrici, di Stefano Benni - Daniele

«Oxford Circle

Una distesa di ebrei a perdita d'occhio, famiglie di quattro, cinque o più persone stipate in lunghe file ininterrotte di mattoni - quanti suffissi in Stein e Vitz, quanti Silver e Gold -, ogni casa con la sua strisciolina di prato davanti e la verandina di cemento grande giusto lo spazio di due sedie pieghevoli. Nell'isolato di Robert Vishniak, al 2100 di Disston Street, nel nordest di Filadelfia, tre porte più in là viveva una famiglia italiana. "Italiani dell'Italia", piaceva dire a sua madre, nati laggiù poco pratici del posto, a cui nessuno aveva fatto sapere per tempo che stavano acquistando casa sul lato sbagliato di Roosevelt Boulevard, una superstrada a mò di spartiacque: a ovest stavano gli ebrei, a est i cattolici.
»
Ragazzo ricco, di Sharon Pomerantz - Heleonor

«È ufficiale» disse Harley. «Hanno ammazzato il Berlinese due notti fa. Sei l’ultimo.» Poi, dopo una pausa: «Mi dispiace».
Questo succedeva ieri sera. Eravamo nella sua casa di Earl’s Court nella biblioteca al piano di sopra, lui in piedi con i muscoli in tensione tra il camino di pietra e il divano rosso sangue, io seduto alla finestra con un bicchierino di Macallan invecchiato quarantacinque anni e una Camel, e guardavo fuori la neve che cadeva bagnata nel buio di Londra.
»
L'ultimo lupo mannaro, di Glen Duncan - Pythia

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