1 marzo 2017

La vetrina degli incipit - Febbraio 2017

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...





«- Chi era quella donna?- chiese la ricca signora Colquhoun, da poco venuta ad abitare a Sarsaparilla.
- Ah,- disse la signora Sugden, e rise, - è la signorina Harc.
- Ha l’aria di una persona insolita,- s’arrischiò a dire la signora Colquhoun, come a sperarlo.
- Be’,- ribadì la signora Sugden, - non posso negare che sia diversa.
Ma la gerente dell’ufficio postale non v’aggiunse altro. Si mise a ficcare il dito in una spugna asciutta. Anche nei suoi momenti più espansivi, quando dissertava sul tempo (era il suo tema), preferiva tenersi sul piano impersonale.
La signora Colquhoun comunque poteva ben vedere che la signorina Harc era un affarino tutto lentiggini cui pareva stessero sempre per cascare le calze. La discrezione della gente la irritava un poco; ma non poteva rimanere così in eterno perché la Guerra era finita e la pace era un fatto ancora troppo recente.
»
I passeggeri del carro, di Patrick White - Antonio

«Osservate...
Questo è lo spazio. A volte lo si definisce l'ultima frontiera.
(Naturalmente non esiste nulla di simile, perché se una frontiera è ultima non porta a niente, ma diciamo che nell'ambito delle frontiere è la penultima...)
E sullo sfondo della cascata di stelle galleggia una nebulosa, vasta e nera, una gigante rossa che scintilla come la follia degli dei...
E poi lo scintillio diventa il guizzo di un occhio gigantesco, oscurato dal battere di una palpebra, e l'oscurità muove una pinna e A'Tuin, la Grande Tartaruga astrale, nuota in avanti nel vuoto.
»
Stelle cadenti, di Terry Pratchett - Sakura

«Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L'aria era morta. Non un movimento, non un suono. L'orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Bianche e rigide le membra. L'aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l'aureola. Sapeva di pane stantio. gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii»
Racconti, di Friedrich Dürrenmatt - Polyfilo

«Il parquet della sala prove è consumato solo in alcuni punti, levigato dai passi di tutti i ballerini che vi si sono esercitati per anni. Anche oggi lavoreremo fino a tardi. Ogni passo deve essere perfetto, i danzatori devono raggiungere la massima sincronia. Ripasso la coreografia, ancora non la sento come un vestito mio. Ripeto ogni passo finché al mio corpo non sembra naturale. Tombé, pas de bourréé, grands jetés, ancora grands jetés fino a percorrere tutta la sala. Devo saltare più in alto con leggerezza e fluidità. Lo specchio non dà scampo agli errori. Mi si richiedono bellezza ed armonia, e allora ripeto ancora e ancora quella serie di passi…e poi un profondo demi – plié, per girare meglio. Contando sulla spinta delle gambe eseguo una splendida pirouette: ecco il pliè, accompagnato dallo scatto deciso della testa, e poi la pirouette.
Non è ancora come voglio. La danza è pura emozione: ho solo il mio corpo per comunicarla. Mi distraggo per un attimo e mi ritrovo per terra, ancorata al pavimento dalla stanchezza. Penso a quanto sia dura e a quanto io ami davvero danzare. Alzo lo sguardo e trovo il mio volto nello specchio. I miei occhi parlano chiaro: sulla fatica vince l’amore per la danza. Decido di non combattere, sento il mio corpo sprofondare nel pavimento e lascio che la mia mente torni al motivo per cui mi trovo lì, sfinita, a provare e riprovare quella coreografia.
»
Cosa ti manca per essere felice?, di Simona Atzori - Cattivissimaprof

««C'era una volta...» disse la nonna di Abraham Setrakian «un gigante.»
Il piccolo Abraham s'illuminò in viso e subito trovò che il borscht di verza nella scodella di legno era più gustoso o almeno non sapeva troppo d'aglio. Era un bambino pallido, magro e malaticcio.
La nonna, decisa a fargli mettere su peso, era seduta di fronte a lui e, mentre il nipote mangiava la minestra, per divertirlo gli raccontò una storia.
Un bubbeh meiseh, un "racconto della nonna". Una favola. Una leggenda.
«Era figlio di un nobiluomo albanese e si chiamava Jusef Sardu. Il signorino Sardu era più alto di tutti i compaesani. Più alto dei tetti del villaggio. Doveva quasi piegarsi in due per entrare dalle porte. Ma la sua statura fuori del comune era un fardello. Una malformazione dalla nascita, non una benedizione. Il ragazzo soffriva. I suoi muscoli non avevano la forza di sostenere le ossa lunghe e pesanti. A volte faceva fatica anche solo a camminare. Jusef usava un lungo bastone da passeggio, più alto di te, con il pomo d'argento a forma di testa di lupo, lo stemma gentilizio della famiglia.»
«E poi, Bubbeh?» disse Abraham, fra una cucchiaiata e l'altra. «Era il suo destino nella vita e gli insegnò l'umiltà, che è davvero rara in un nobiluomo. Lui provava grande compassione per i poveri, per i lavoratori e per gli ammalati. Gli stavano particolarmente a cuore i bambini del villaggio e nelle grandi tasche, simili a sacchi per le rape, teneva sempre ninnoli e dolciumi. In pratica non aveva avuto un'infanzia, perché a otto anni era già alto come suo padre e a nove lo superava di tutta la testa. La sua gracilità e l'esagerata corporatura erano una segreta fonte di vergogna per il padre. Ma il signorino Sardu era davvero un gigante buono, molto amato dal suo popolo. Di lui si diceva che guardava tutti da sopra, ma nessuno dall'alto in basso
»
La Progenie, di Guillermo del Toro, Chuck Hogan - Chiara A.

«Nella seconda metà degli anni Sessanta mi recavo di frequente, in parte per motivi di studio, in parte per altre ragioni a me stesso non ben chiare, dall'Inghilterra al Belgio, a volte solo per un giorno o due, a volte per parecchie settimane. Durante una di quelle puntate in Belgio che - questa era allora la mia impressione - mi portavano in terre sempre molto lontane, capitai anche, in una scintillante giornata di inizio estate, ad Anversa, città che fino a quel momento conoscevo soltanto di nome. Già all'arrivo, mentre sferragliando il treno avanzava lentamente sotto la volta buia della stazione, dopo aver attraversato un viadotto dalle strane torrette a guglia su entrambi i lati, fui subito colto da un senso di malessere che, per tutto il tempo trascorso quella volta in Belgio, non mi avrebbe più abbandonato. Ricordo ancora con quali passi incerti girovagavo in lungo e in largo nel centro della città, per la Jeruzalemstraat, la Nachtegaalstraat, la Pelikaanstraat, la Paradijsstraat, la Immerseelstraat e per molte altre vie e stradine, e come alla fine, tormentato dal mal di testa e dai cattivi pensieri, trovassi rifugio al giardino zoologico situato in Astridplein, nelle immediate vicinanze della stazione centrale.»
Austerlitz, di W.G. Sebald - Valetta

«Remammo fuori dal porto, oltre le chiglie arrugginite delle barche che beccheggiavano, oltre file di uccelli marini silenziosi come giurati, appollaiati su quel che restava delle banchine sommerse e incrostate di molluschi, oltre pescatori che al nostro passaggio lasciavano cadere le reti e ci fissavano immobili, chiedendosi se fossimo reali oppure frutto della loro immaginazione; una sfilata di fantasmi venuti dall’acqua, o di esseri che presto lo sarebbero diventati. Eravamo dieci ragazzi e un uccello a bordo di tre piccole imbarcazioni instabili, remavamo con placida energia verso il mare aperto, mentre l’unico porto sicuro nel raggio di miglia svaniva lentamente alle nostre spalle, magico e roccioso nella luce blu e oro dell’alba. La nostra meta, la costa frastagliata del Galles, si trovava da qualche parte di fronte a noi, ma era a malapena visibile, una macchia scura annidata nell’orizzonte lontano. Superammo il vecchio faro, distante e tranquillo, che appena la notte precedente era stato il teatro di tante sventure. Proprio lì dentro, mentre le bombe ci esplodevano intorno, avevamo rischiato di annegare, di essere dilaniati dai proiettili; lì dentro avevo impugnato una pistola, premuto il grilletto e ucciso un uomo, un gesto che ancora non riuscivo a comprendere; lì dentro avevamo perso Miss Peregrine per poi ritrovarla, strappandola alle grinfie d’acciaio di un sottomarino. Ma Miss Peregrine ci era stata restituita difettosa, le serviva un aiuto che noi non eravamo in grado di darle. Ora se ne stava abbarbicata sulla poppa della nostra barca e osservava scivolare via il rifugio che lei stessa aveva creato, un pezzetto in meno a ogni colpo di remo.»
Hollow City, di Ransom Riggs - Il gatto Zorba

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