1 dicembre 2015

La vetrina degli Incipit - Novembre 2015

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...





«Era in prigione da tre anni, Shadow. E siccome era abbastanza grande e grosso e aveva sufficientemente l’aria di uno da cui è meglio stare alla larga, il suo problema era più che altro come ammazzare il tempo. Perciò faceva ginnastica per tenersi in forma, imparava i giochi di prestigio con le monete e pensava un sacco a sua moglie e a quanto la amava.
L’aspetto più positivo del fatto di essere in prigione, secondo lui – forse l’unico aspetto positivo – era una certa sensazione di sollievo. Sollievo all’idea di aver toccato il fondo. Non si doveva più preoccupare di essere preso, perché era già stato preso. Non aveva più paura di ciò che avrebbe potuto riservargli il futuro, perché il passato ci aveva già provveduto. .
»
American Gods, di Neil Gaiman - Valetta

«L’uomo uscì dal bosco lasciando alle spalle l’ultimo brandello di natura, pochi appezzamenti di terra nera, oleosa, un manto lunare coperto da alberi che avevano resistito ad anni ormai privi di stagioni. Arrivò al centro di una pianura aperta, spazzata dal vento, occupata da chiazze di neve piena di cenere. Tutto attorno, quel che restava, rare costruzioni, case dai muri crepati, reticoli di strade sventrate, piazze ’asfalto divelto, era andato bruciato dalla pioggia acida, dall’aria di ghiaccio, dall’abbandono. Nemmeno le sterpaglie e i rovi avevano avuto la forza di riprendersi in quei luoghi. Il grigio e il freddo formavano un inverno senza fine. L’inverno dell’umanità, lo chiamavano. Giorno dopo giorno, camminava dalle prime luci dell’alba del mattino all’avvento della notte profonda, senza sosta, trascinando il corpo stanco, un passo dopo l’altro, piegato nonostante la giovane età. Unicamente col buio poteva fermarsi, sotto il cielo senza alcuna stella, nascosto ai bordi delle strade, come un animale che respira lentamente sopravvissuto alla mattanza.»
Metropoli, di Massimiliano Santarossa - Cattivissimaprof

«Diario di m.lle Cecile Dubois (Estratti)

2/12/72
Da quando la mia povera mamma paralizzata ha reso, il giorno d’Ognissanti, l’anima a Dio il nostro appartamentino è molto quieto e tranquillo. Potrei annotare ogni giorno un comunicato militare: N.d.S.: Niente da Segnalare. Neanche Gustave mi guarda più, mi parla più, mi presta più la minima attenzione. Per la maggior parte del tempo dorme, mangia, medita intorpidito. Ma trascorre lunghi momenti a osservare dalla finestra la circolazione delle macchine in fondo alla rue Sant-Jacques; e allora, d’un tratto, si irrita, miagola con voce roca, lo sguardo vitreo. Evidentemente non gli basto più!
La monotonia di queste grigie giornate invernali, la singolare solitudine di questo quartierino sotto i tetti, la brulicante solitudine del mio lavoro alla Bibliothèque Nationale sono indubbiamente rotte soltanto il sabato, dalle 10 alle 11, dalle lezioni di Labattut-Largaud alla Sorbona.
Dieci anni fa avevo già avuto Labattut-Largaud come professore di tedesco al liceo della porte de Passy; e oggi lo ritrovo all’università, docente di Letteratura Comparata.
Al lieco di Passy, LL, che chiamavamo Loulou, era un insegnante di lingua quanto mai originale. Quando passava l’ispettore – tre quarti d’ora l’anno! – aveva il buon senso di attenersi alla lettera alle istruzioni ufficiali e ci insegnava a parlare tedesco moderno con i metodi cosiddetti «attivi», il che era noiosissimo. Ma per il resto dell’anno sacrificava alla sua vocazione personale, che è di far rivivere il passato.
.
»
Morire a Francoforte , di Hubert Monteilhet - Antonio

«Dopo aver ottenuto il regno con duplice delitto, Cleopatra si abbandonò ai piaceri e divenne, per così, dire, la prostituta dei re d'Oriente: avida d'oro e di gioielli, non solo con le proprie arti spogliò i suoi amanti di tali ricchezze, ma anche i templi e i luoghi sacri". Così la descrive Boccaccio [De mulieribus claris, LXXXVIII, trad. Zaccaria, 1970, p. 349], dopo che già Properzio le aveva dato della "Regina meretrix" [Elegie, III, v. 39]; Dante perpetua la tradizione piazzando "Cleopatràs lussuriosa" fra i gironi infernali [Inferno, V, v.63]. Ai posteri, cioè a noi, resta da capire se si tratti di una fama meritata, o se sia invece il risultato della damnatio memoriae a cui venivano condannati i nemici di Roma.»
Spregiudicate, di Adriana Schepis - Daniele

«Landolfo: (a Bertoldo come seguitando una spiegazione) E questa è la sala del trono!
Arialdo: A Goslar!
Ordulfo: O anche, se vuoi, nel Castello dell'Hartz!
Arialdo: O a Worms.
Landolfo: Secondo la vicenda che rappresentiamo, balza con noi, ora qua, ora là.
Ordulfo: In Sassonia!
Arialdo: In Lombardia!
Landolfo: Sul Reno!
Uno dei valletti (senza scomporsi, movendo appena le labbra): Ps! Ps!
Arialdo: (voltandosi al richiamo) Che cos'è?
Primo valletto: (sempre come una statua, sottovoce) Entra o non entra?
Allude a Enrico IV»
Enrico IV, di Luigi Pirandello - Tancredi

«Non smetteva di piovere. Il raccolto marciva nei campi, le pareti di legno delle case si coprivano di muffa, i ponti delle navi erano viscidi come alghe. Per mesi Laurentius aveva mangiato pane rancido e vissuto in case putride, e da una settimana scivolava sul ponte di coperta. Una bile nera gli si era raccolta dentro come la schiuma sporca che si forma attorno a un pezzo di legno gettato nel fiume. Ora che da una barca traballante scendeva finalmente su una banchina, mettendo piede sulle assi viscide , inchiodate ai pali conficcati nel fondale limaccioso, si guardò intorno esitante. Dal cielo basso le raffiche di vento gli soffiavano in faccia spruzzi d'acqua, mentre cercava di capire che posto fosse quella terra in cui aveva liberamente deciso di venire.
La striscia di costa piatta con la spiaggia bianca e i ciuffi dei canneti gli ricordavano da vicino il porto dove si era imbarcato. L'albero della nave postale aveva lo stesso aspetto sullo sfondo del cielo plumbeo, e le vele issate apparivano grigie e insulse proprio come quando era partito. Accanto al molo si allungava nell'acqua torbida un pontile che terminava con una vecchia guardiola accucciata sul mare. Era evidente che da tempo nessuno la utilizzava più. Edifici in rovina se ne trovano in ogni porto e quell'immagine, pur desolante, riuscì per qualche strana ragione a infondere in Laurentius un certo conforto.
»
Le api di, Meelis Friedenthal- Polyfilo

«Luce. Il candore nitido del cielo gli feriva gli occhi. Cominciò a sentire sotto i polpastrelli gelati una superficie dura troppo regolare per essere di origine naturale. Quello doveva essere lo spigolo di qualcosa, assolutamente. Per tutta la giornata precedente era caduta una nevicata insistente e nervosa, che aveva lasciato parecchi cumuli di biancore stantio su quella landa brulla e e senza dei. Il freddo gli era penetrato nelle ossa e lo mordeva, affamato, ma la voce dentro la sua testa gli ripeteva che finalmente aveva scovato quello che per forza doveva trovarsi lì sotto. Alzò per un attimo il capo e si guardo intorno Tra le mani aveva probabilmente la scoperta della vita, e la scena davanti a lui parve congelarsi come in un cristallo di ghiaccio: sbuffi di fumo bianco, denso come latte, uscivano quasi a fatica dalle narici dei cavalli; le guardie imperiali perlustravano intirizzite la zona degli scavi, più preoccupate di combattere il freddo atroce che di difendere la spedizione; gli altri soldati, quelli con la tunica rosso sangue, scandagliavano la radura con sguardo incattivito, mentre i suoi pochi collaboratori lavoravano, come se nulla fosse. Erano gli unici ad essere soddisfatti di trovarsi laggiù nel Mourn Labyrinth. »
Obscuram, il Presagio, di Alfredo Drago, Diego De Vita - Chiara A.

«Chiudo gli occhi per vivere. Per uccidere, anche. In questo sono il più forte: lui chiude gli occhi soltanto per dormire e nemmeno il sonno gli dà conforto. Le sue tenebre pullulano di morti, di crudeltà che lo ossessionano. Io so che a lui non piace il riposo, come non piace a tutti i grandi della terra. Il riposo lo lascia solo con la sua coscienza e i suoi rimorsi, col rimpianto di avere agito sempre da potente, da uomo terrorizzato dal proprio potere. Una volta, cinque anni or sono, lo incontrai al tempio, di mattina, appena sveglio. Aveva gli occhi rossi, gonfi di stanchezza e non aveva il coraggio di guardarci, per paura che si potessero decifrare nel suo sguardo il nome o i tratti di coloro che lo avevano tormentato durante la notte. È adorato come un dio, ma nessuno lo ama. Infatti, è l’autore della Pace universale e ha creato il più grande impero di tutti i tempi, ma è anche l’autore della Paura, la paura degli altri e la sua.
La tempesta di neve scuote il tetto. Il mare geme in lontananza e, nella notte, le sue onde si trasformano in lunghi fantasmi di ghiaccio. Domani la gente potrà camminare sopra i pesci e qualche vicino, più robusto di me, dovrà aprire un passaggio fino alla mia porta, attraverso lo spessore della neve, perché io possa uscire. Non ho mai sentito un urlo come questo, accompagnato dallo scricchiolio della neve ghiacciata all’esterno dei muri. Oltre questo acuto grido che si abbatte su di me come un’onda, il gemito del mare sembra il suono stesso della notte, come se il tempo avesse una voce e la facesse udire in un punto solo della terra: qui. La mia casa è quasi addossata ai bastioni della città, e quando il vento si calma sento l’ululare dei lupi fuori dalle mura. Hanno fame. Ne è stato ucciso uno in strada, oggi pomeriggio. Sconvolta dalla fame, la bestia si era lanciata verso la città, gettandosi sulla prima persona incontrata, una vecchia di ritorno dal mercato, e sbranandola in un batter d’occhio. Sono corso anch’io alle grida della gente e ho avuto il tempo di vedere il lupo, trafitto da una lancia, giacere sopra la sua vittima sulla neve insanguinata. Ho pensato subito a lei. Non ho potuto fare a meno di augurarle la stessa sorte, che, sfortunatamente, è impossibile: i lupi non arrivano mai a Roma. Ma una notte un lupo potrebbe sfuggire ai bestiari, penetrare nel giardino del palazzo imperiale e fare quel che fino ad oggi nessun uomo ha avuto il coraggio di fare…
Chiudo gli occhi e uccido. Queste scene sono presenti, più vive e più chiare del ricordo di oggi! Chiudo gli occhi e vedo. Sono poeta. Lui è solo imperatore.
»
Dio è nato in esilio, di Vintilă Horia - Patrizia O.

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