1 gennaio 2013

La vetrina degli incipit - Dicembre 2012

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...



 


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«Nel giorno in cui la flotta di astronavi partì per la guerra, nell'ultimo giorno della vita così come noi la conosciamo, fui invitato ad un party. C'erano party dappertutto, quella sera, su più di centocinquanta mondi della Rete, ma il mio era l'unico che contasse. Per mezzo della sfera dati comunicai che accettavo l'invito, controllai che il mio migliore abito da sera fosse pulito, me la presi comoda a farmi il bagno e la barba, mi vestii con cura meticolosa e all'ora fissata adoperai il diskey usa-e-getta contenuto nel chip d'invito, per teleportarmi da Esperance a Tau Ceti Centro. In quell'emisfero di TC² era tardo pomeriggio. Una luce bassa e intensa illuminava le alture e le valli del Parco dei Cervi, le torri grigie del complesso amministrativo più a sud, i salici piangenti e le splendide pirofelci lungo le rive del fiume Teti, i bianchi colonnati della stessa Casa del Governo. Gli ospiti arrivavano a migliaia, ma il personale del servizio di sicurezza accoglieva ciascuno di noi, confrontava con gli schemi DNA i codici d'invito e indicava con un gesto cortese come raggiungere bar e buffet. "Signor Joseph Severn" confermò la guida, in tono educato. "Sì" mentii. Severn era il mio nome, allora, ma non la mia identità.»
La caduta di Hyperion, di Dan Simmons - Tancredi

«Quella che state per leggere è la cronaca di un viaggio, durato qualche mese, cominciato a Enna e finito a Milano. È una storia collettiva raccontata con il materiale vivo delle parole, delle testimonianze, un materiale impastato del dolore, della rabbia, dello sbigottimento dei sopravvissuti. È l'incredibile racconto di una tragedia nazionale, che si sta svolgendo in tutto il nostro territorio, da Sud a Nord, dai piccoli paesi alle grandi città, e investe tutti gli ambienti sociali, dal più povero al più ricco, nessuno escluso. È la storia di tante donne uccise dal loro partner in Italia. 137 solo l'anno scorso, una ogni tre giorni. Già più di 80 quest'anno, nel 2012, a fine estate, mentre questo suo libro sta andando in stampa. Una strage di donne che non si ferma, che non conosce crisi, che macina lutti e sparge dolore come una vera e propria macchina da guerra. Perché di guerra si tratta, di uomini che si armano per uccidere le loro donne, quelle con cui stanno e quelle con cui sono stati. Gli assassini infatti sono quasi sempre loro, mariti, ex mariti, partner, ex partner. Una guerra che prima di finire sui giornali nasce nelle case, all'interno delle famiglie, nel luogo che dovrebbe essere il più sicuro e protetto. E invece diventa improvvisamente il più pericoloso, una prigione, l'anticamera della morte. È una guerra che ha un obiettivo immediato: annientare, ridurre al silenzio la donna che ha osato alzare la testa, che ha detto no, che ha scelto di lasciare il compagno o che si è rivolta a un giudice: e un obiettivo strategico, più a lungo termine: impedire alle donne in Italia di essere libere di scegliere, di vivere, di amare. È quindi una storia che ci riguarda da vicino, perché ci dice come siamo nel profondo, tutti, nessuno escluso. È una storia dell'Italia. »
Se questi sono gli uomini, di Riccardo Iacona - Morwen

«Imboccai la Florida Turnpike con il cadavere decapitato di Rollo Kramer nel bagagliaio della Chrysler, continuando a ripetermi mentalmente che avrei dovuto stenderci sotto un telo di plastica. D'accordo, la carretta era a nolo, ma non mi andava di lasciare in giro trofei per l'inevitabile safari della Scientifica. Ora mi sarebbe toccato staccare il tappetino del bagagliaio, innaffiare il sangue di candeggina e sperare che l'Avis impiegasse un sacco di tempo ad accorgersene. Molto meglio se avessi perso un minuto a stenderci sotto un telo di plastica. Merda.»
La gabbia delle scimmie, di Victor Gischler - Daniele

«Nel 1991 ricevetti una borsa di studio di due anni da una fondazione nipponica che aveva deciso di offrire a sette giovani inglesi con interessi professionali diversi -ingegneria, giornalismo, impresa, ceramica- un corso di lingua giapponese presso una università dell'Inghilterra, seguito da un soggiorno di un anno a Tokyo. Negli obiettivi della fondazione, la conoscenza della lingua avrebbe contribuito a inaugurare una nuova epoca di contatti fra i due paesi, ed io facevo parte dei sette prescelti come pionieri dell'iniziativa. Le aspettative erano enormi. Durante l'anno di soggiorno a Tokyo, trascorrevamo la mattina in una scuola di lingua nel quartiere di Shibuya, su un'altura che domina una distesa di fast-food e megastore di elettronica. La città si stava riprendendo dal crollo seguito alla bolla speculativa degli anni ottanta e i pendolari si soffermavano in prossimità del celebre attraversamento pedonale, il più affollato del mondo, per osservare dai maxischermi l'ascesa inarrestabile degli indici di Borsa. Per evitare la calca dell'ora di punta in metropolitana, uscivo con un'ora di anticipo e, in compagnia di un borsista più anziano -un archeologo-, facevo colazione con caffè e girelle alla cannella prima delle lezioni. Era dai tempi della scuola che non avevo l'assillo dei compiti a casa: centocinquanta kanji, gli ideogrammi giapponesi, da imparare ogni settimana; analisi grammaticale di un articolo di giornale; decine di espressioni colloquiali da ripetere tutti i giorni.»
Un'eredità di avorio e ambra, di Edmund de Waal - Mara

«A quanto mi risulta, l’Europa è l’unico continente che si considera rinato. Una nuova percezione di sé si diffuse da sud a nord e questo fenomeno divenne il cuore di ciò che chiamiamo Rinascimento, la «rinascita». Tenuto conto del retaggio cristiano, mi sembra significativo che il termine usato non sia «resurrezione».
Quando l’Europa rinata crebbe e si irrobustì, acquisì una nuova concezione e dell’amore. La novità consisteva nel fatto che l’amore era circoscritto.
Il Rinascimento fu seguito dalla Riforma, la «rigenerazione».
Alcune parti dell’Europa rinata non sopportavano più la fede tramandata; secondo i riformatori il cristianesimo andava rigenerato nella sua forma originaria. Contemporaneamente si formò il concetto dell’Europa come un tutt’uno distinto dal resto del mondo, e il concetto analogo dell’uomo come individuo e quello del rapporto personale con Dio. Rivolgimenti che non risparmiarono neppure l’amore.
»
Tesi sull'esistenza dell'amore, di Torben Guldberg - Vittoria A.

«Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagine, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.
Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome.
»
Il racconto dell'ancella, di Margaret Atwood - Sakura

«My sister Greta and I were having our portrait painted by our uncle Finn because he knew he was dying. This was after I understood that I wasn't going to grow up and move into his apartment and live tcai che accettavo l'invito, conter I stopped believing that the AIDS thing was all some kind of big mistake.
When he first asked, my mother said no. She thought there was something macabre about it. When she thought of the two of us stting in Finn's apartment with its huge windows and the scent of lavander and orange, when she thought of him looking at us like it might be the last time he would see us, she couldn't bear it. And she said it was a long drive from nothern Westchester all the way into Manhattan. She crossed her arms over her chest, looked right into Finn's bird-blue eyes, and told him it was hard to find the time these days.
"Tell me about it" he said.
That's what broke her.
»
Tell the wolves I'm home, di Carol Rifka Brunt - Valetta

«Nonostante l'aspetto da bell'uomo, chiunque gli avrebbe dato più della sua età.
Bisogna dire che lui e i suoi simili bevono molto, non si curano i denti e sono consumati dalle malattie sessuali che si prendono o che danno.
Possiede anche la spavalderia infantile dei quartieri che frequenta. Spavalderia che non gli fa trascurare nulla del look da dandy delle rive del Riachuelo, il fiume dalla sinuosità elegante e dalle acque imputridite dai mattatoi, dai conciatori e dalle macellerie industriali che ci scaricano dentro notte e giorno un brodo caldo di trippe. E che impone di uscire con una perla alla cravatta e un coltello in tasca. Del resto tra loro ogni tanto si sgozzano. Paese di macellai.
»
L'uomo che viaggiava con la peste, di Vincent Devannes - Polyfilo

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