8 dicembre 2011

Angolotesti: "L'usignolo e la rosa" di Oscar Wilde

Buonasera a tutti i nostri lettori,
torna oggi Angolotesti, una selezione di testi letterari o poetici nella loro interezza con una breve contestualizzazione perché possiate meglio apprezzarli.
Restiamo ancora nell'Ottocento: ma, dopo essere trasvolati indietro e avanti dal Simbolismo al Romanticismo e poi ancora alla Scapigliatura, ci spostiamo in area decadente: il racconto proposto oggi, così immediato - ed eppure raffinatissimo nella sua semplicità - da non necessitare quasi di anticipazioni o esplicazioni, è una di una delle favole di Oscar Wilde, inclusa nella raccolta Il principe felice e altri racconti (1888). La raccolta contiene cinque favole che l'autore irlandese scrisse per i figli Cyril e Vyvyan, tra cui le notissime
Il gigante egoista e Il principe felice. L'usignolo e la rosa, altrettanto tragica che Il principe felice, è forse un po' meno nota. Ecco cosa Wilde stesso scrisse a riguardo:

“The nightingale is the true lover, if there is one. She, at least, is Romance, and the Student and the girl are, like most of us, unworthy of Romance. So, at least, it seems to me, but I like to fancy that there may be many meanings in the tale, for in writing it I did not start with an idea and clothe it in form, but began with a form and strove to make it beautiful enough to have many secrets and many answers.”
(Letters, 218)
[L'usignolo è la vera amante, se mai ne esiste una. Lei, almeno, è Amore, e lo Studente e la ragazza sono, come la maggior parte di noi, indegni di Amore. O almeno così mi sembra, ma mi piace immaginare che nella favola possano esserci molti significati, perché nello scriverla non ho iniziato con un'idea che ho rivestito di una forma, ma con una forma che mi sono sforzato di rendere abbastanza bella da nascondere molti segreti e risposte. (Lettere, 218)]
La favola, in sostanza, altro non è se non l'allegoria della distruzione dell'amore e della bellezza nella civiltà moderna, tema tipico del movimento letterario decadentista di cui Wilde fu fiero esponente.
Nota: la fonte del seguente testo è il sito doriangray84.interfree.it, che purtroppo non riporta il nome del traduttore né l'edizione da cui il racconto è tratto.



L'usignolo e la rosa


«Ha detto che danzerà con me se le porterò delle rose rosse», gemeva il giovane Studente, «ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa.»
Dal suo nido nella quercia lo udì l’Usignolo, e guardò attraverso le foglie, e stupì.
«Non una rosa rossa in tutto il mio giardino!», gemeva lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di lacrime. «Ah, da quali inezie dipende la felicità! Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, eppure la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita.»
«Ecco finalmente un vero innamorato», disse l'Usignolo. «Notte dopo notte ho cantato di lui, benché non lo conoscessi: notte dopo notte ho raccontato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i boccioli del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio; ma la passione ha reso il suo volto simile a pallido avorio e il dolore gli ha impresso il suo suggello sulla fronte.»
«Il Principe dà un ballo domani sera», mormorava il giovane Studente, «e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa rossa danzerà con me fino all'alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò fra le mie braccia ed ella chinerà il capo sulla mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed ella passerà dinanzi a me senza fermarsi. Non avrà alcuna cura di me, e il mio cuore si spezzerà.»
«Ecco sicuramente un vero innamorato», disse l'Usignolo. «Ciò che io canto, egli lo soffre; ciò che per me è gioia, per lui è pena. Davvero l'Amore è una cosa meravigliosa. È più prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e granati non possono comperarlo, e non è in vendita sulla piazza del mercato. Non possono acquistarlo i mercanti, né pesarlo le bilance dell'oro.»
«I musicanti siederanno nella galleria», diceva il giovane Studente, «e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata danzerà al suono dell'arpa e del violino. Danzerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno il pavimento, e i cortigiani nei loro abiti variopinti le si affolleranno intorno. Ma con me non danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle», e si gettò sull'erba, si chiuse il volto tra le mani, e pianse.
«Perché piange?», chiese un piccolo Ramarro verde, oltrepassandolo in corsa con la coda per aria.
«Già, perché?», chiese una Farfalla, che volteggiava qua e là inseguendo un raggio di sole.
«Già, perché?», bisbigliò una Pratolina al suo vicino, con voce sommessa e delicata.
«Piange per una rosa rossa», disse l'Usignolo.
«Per una rosa rossa!», esclamarono quelli. «Che ridicolaggine!», e il Ramarro, che era un po' cinico, rise di gusto.
Ma l'Usignolo capiva il segreto dolore dello Studente, e restava silenzioso sulla quercia, a meditare sul mistero dell'Amore.
D'improvviso spiegò le sue brune ali nel volo, e si librò nell'aria. Passò attraverso il boschetto come un'ombra, e come un'ombra aleggiò sul giardino.
Al centro dell'aiola erbosa si ergeva un bellissimo Rosaio, e non appena l'Usignolo lo vide volò sopra di esso e si posò su un ramo.
«Dammi una rosa rossa», implorò, «e ti canterò la mia canzone più dolce.» Ma il Rosaio scosse il capo.
«Le mie rose sono bianche», rispose, «bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve sulla montagna. Ma va' da mio fratello che cresce accanto all'antica meridiana, e forse ti darà quel che desideri.»
Allora l'Usignolo volò sul Rosaio che cresceva accanto all'antica meridiana.
«Dammi una rosa rossa», implorò, «e ti canterò la mia canzone più dolce.»
Ma il Rosaio scosse il capo.
«Le mie rose sono gialle», rispose, «gialle come i capelli della sirena che siede sopra un trono d'ambra, e più gialle del narciso che sboccia nel prato prima che il mietitore giunga con la sua falce. Ma va' da mio fratello che cresce sotto la finestra dello Studente, e forse ti darà quel che desideri.»
Allora l'Usignolo volò sul Rosaio che cresceva sotto la finestra dello Studente.
«Dammi una rosa rossa», implorò, «e ti canterò la mia canzone più dolce.»
Ma il Rosaio scosse il capo.
«Le mie rose sono rosse», rispose, «rosse come i piedi della colomba, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che ondeggiano nelle grotte degli oceani. Ma l'inverno ha agghiacciato le mie vene e il gelo ha straziato i miei boccioli, e l'uragano ha schiantato i miei rami, e non avrò più rose quest'anno.»
«Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo!», gridò l'Usignolo. «Non c'è proprio nessun modo per averla?»
«Un modo c’è», rispose il Rosaio, «ma è così terribile che non oso dirtelo.»
«Dimmelo», pregò l'Usignolo, «io non ho paura.»
«Se vuoi una rosa rossa», disse il Rosaio, «devi formarla con la musica al lume della luna, e tingerla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trapassare il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve fluire nelle mie vene e diventare mio.»
«La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa», si dolse l'Usignolo, «e la vita è così cara a tutti. E dolce indugiare nel bosco verde, e guardare il Sole nel suo cocchio d'oro, e la Luna nel suo cocchio d'argento. Dolce è il profumo della vitalba, e dolci le campanule azzurre che si nascondono nella valle, e l'erica che fiorisce sul colle. Ma l'Amore è più prezioso della Vita, e cos'è mai il cuore di un uccellino paragonato al cuore di un uomo?»
Così spiegò le ali brune nel volo, e si librò nell'aria. Passò attraverso il giardino come un'ombra, e come un'ombra sorvolò il boschetto.
Il giovane Studente era ancora disteso nell'erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s'era ancora asciugato dai suoi begli occhi.
«Sii felice!», gli gridò l'Usignolo. «Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la tingerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è di essere un vero innamorato, perché l'Amore è più saggio della Filosofia, per quanto saggia essa sia, e più potente del Potere, per quanto potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all'incenso è il suo alito.»
Lo Studente sollevò lo sguardo dall'erba e si pose ad ascoltare, ma non gli era possibile capire ciò che l'Usignolo gli diceva, poiché capiva solo le parole che sono scritte sui libri.
Ma la Quercia capì, e si rattristò, poiché voleva molto bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami.
«Cantami un'ultima canzone», gli sussurrò. «Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andato.»
Così l'Usignolo cantò per la Quercia, e la sua voce era come acqua che si effonda gorgogliante da un'anfora d'argento.
Finita che fu la canzone, lo Studente si alzò, e trasse di tasca un taccuino con una matita. «Questa creatura ha stile», disse a se stesso, «è un fatto che non si può negare; ma avrà altresì sentimenti? Temo di no. In verità, è come la maggior parte degli artisti: tutta forma, nessuna sincerità. Non si sacrificherebbe per gli altri. Pensa soltanto alla musica, e tutti sanno che l'arte è egoista. Bisogna comunque ammettere che ha note stupende nella sua voce. Peccato che non significhino nulla, e non abbiano alcuna utilità pratica.» E andò in camera, e si stese sul piccolo giaciglio e ricominciò a pensare alla sua amata; e dopo un po' di tempo, si addormentò.
E quando la Luna brillò nei cieli l’Usignolo volò al Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad ascoltarlo. Tutta la notte cantò, e la spina penetrava sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue vitale defluiva da lui.
Prima cantò dell'amore che nasce nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla e sul ramo più alto del Rosaio fiorì una rosa meravigliosa, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era dapprima, come la nebbia sospesa sul fiume - pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell'alba. Come l'ombra di una rosa in uno specchio d'argento, come l'ombra di una rosa in una pozza d'acqua, così era la rosa che fioriva sul ramo più alto del Rosaio.
Ma il Rosaio gridava all'Usignolo di premere più forte sulla spina. «Premi più forte, piccolo Usignolo», gridava il Rosaio, «o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta.»
Così l'Usignolo premette più forte sulla spina, e più e più forte si fece il suo canto, poiché cantava il nascere della passione nell'anima di un uomo e di una donna.
Una tenue venatura rosea si diffuse nei petali del fiore, simile al rossore che si diffonde sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non era ancora giunta al cuore dell'uccellino, e il cuore della rosa rimaneva bianco, poiché solo il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il cuore di una rosa.
E il Rosaio gridava all'Usignolo di premere più forte sulla spina. «Premi più forte, piccolo Usignolo, o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta.»
Così l'Usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò il cuore, e un acuto spasimo di dolore lo trapassò. Più e più amaro era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell'Amore che è reso perfetto dalla Morte, dell'Amore che non muore nella tomba.
E la meravigliosa rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo d'Oriente. Vermiglia era la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come un rubino era il suo cuore.
Ma la voce dell'Usignolo si fece più fievole, e le sue piccole ali cominciarono a sbattere, e un velo discese sui suoi occhi. Più e più fievole si fece il suo canto, e qualcosa lo soffocava in gola come un singulto.
Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo udì, e dimenticò l'alba, e indugiò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e tremò tutta d'estasi, e aprii suoi petali alla fredda aria del mattino. L'eco lo ripeté nel suo antro purpureo sui colli, e destò dai loro sogni i pastori dormienti. Fluttuò fra i giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al mare.
«Guarda! Guarda!», gridò il Rosaio, «la rosa è perfetta, ora!», ma l'Usignolo non rispose, poiché giaceva morto nell'erba alta, con la spina nel cuore.
A mezzogiorno lo Studente aprì la sua finestra e guardò fuori.
«Che meraviglioso colpo di fortuna!», esclamò. «Una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella che senza dubbio avrà un lungo nome latino», e si sporse, e la colse.
Poi si mise il cappello, e corse a casa del Professore con la rosa in mano. La figlia del Professore sedeva in veranda, dipanando della seta azzurra su un arcolaio, e il suo cagnolino le stava disteso ai piedi.
«Avevate promesso di danzare con me se vi avessi portato una rosa rossa», gridò lo Studente. «Ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre danzeremo insieme vi dirà quanto vi amo.»
Ma la fanciulla aggrottò la fronte
«Temo che non sia intonata al mio vestito», rispose, «e poi, il nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori.»
«In fede mia, siete davvero un'ingrata!», disse lo Studente in un impeto d'ira; e gettò la rosa giù nella strada, ed essa cadde in un rigagnolo, e la ruota di un carro vi passò sopra.
«Ingrata io?», ripeté la fanciulla. «Ebbene, voi sapete che cosa siete? Un gran villano; in fondo, né più né meno che un semplice Studente. E non credo neppure che abbiate delle fibbie d'argento sulle scarpe come il nipote del Ciambellano.» E si alzò dalla sedia ed entrò in casa.
«Che stupidaggine è l'Amore!», disse lo Studente andandosene. «Non è utile nemmeno la metà della Logica, perché non dimostra nulla, promette sempre cose che non si realizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è assolutamente pratico, e siccome nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica.»
Così si rinchiuse nella sua stanza, prese dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.



Oscar Fingal O'Flaherty Wills Wilde, scrittore, drammaturgo e poeta, nacque a Dublino il 16 ottobre 1854, da un oftalmologo e una poetessa irlandesi. Studiò, con alto profitto - tanto da ottenere diverse borse di studio - al Trinity College di Dublino e poi al Magdalene College di Oxford, dove conobbe il docente Walter Pater che influenzò notevolmente la sua vita artistica. Dopo essersi laureato nel 1878, l'anno successivo si trasferì a Londra, esercitando successivamente la professione di giornalista. Nel 1881 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Poems, che fu stroncata e immediatamente accusata d'immoralità, ma la sua fama d'esteta dissoluto arrivò perfino in America, tanto che un impresario teatrale, Richard D'Oyly Carte, lo invitò a tenere un ciclo di conferenze. Trasferitosi a Parigi, Wilde intrecciò un'ambigua relazione con lo scrittore Robert Sherard, suscitando scandali e pettegolezzi che lo costrinsero, tornato a Londra, a sposare Constance Lloyd. Dall'altalenante matrimonio nacquero i figli Cyril e Vyvyan, il che non impedì a Wilde di continuare a stringere numerose relazioni con uomini anche molto giovani.
Nel 1888 Wilde pubblicò la raccolta Il principe felice e altri racconti, mentre del 1890 è il suo unico romanzo - considerato il manifesto dell'estetismo -: Il ritratto di Dorian Gray, opera che poco piacque al pubblico di lettori e che fu utilizzata come capo d'accusa al successivo processo.
Nel 1891 Wilde tornò in Francia, dove conobbe Zola, Gide, Proust e Mallarmé, poi nuovamente a Londra, dove si riconciliò con la moglie: è questo il periodo della raccolta Il delitto di Lord Arthur Savile e altre storie (che include anche Il fantasma di Canterville) e delle opere teatrali Il ventaglio di Lady Wintermere, Una donna di nessuna importanza, Il marito ideale e Salomè.
Nel 1892 Wilde conobbe Alfred Douglas, giovane dissoluto che divenne suo amante e che gli fece conoscere il mondo della prostituzione giovanile. Non fece mai nulla per dissimulare la sua condotta, nonostante esistesse un emendamento che puniva con due anni di reclusione gli omosessuali. I continui dissapori con il padre di Alfred, che riteneva Wilde responsabile della vita immorale del figlio, condussero all'arresto dell'artista nel 1895 al termine di un lungo processo. I giornali dichiararono la fine dell'estetismo. Nel 1894, intanto, aveva scritto L'importanza di chiamarsi Ernesto, messo in scena pochi mesi prima del processo. Dello stesso anno è anche la raccolta poetica Poemi in prosa,
Wilde rimase per due anni in carcere, dove scrisse il De Profundis. Fu rilasciato nel 1897, anno di inizio del declino: dopo un breve ritorno di fiamma con Douglas, con cui si trasferì a Napoli, visse in malattia e in povertà, in condizioni di estremo degrado. La sua ultima opera fu La ballata del carcere di Reading.
Morì il 30 novembre 1900 a Parigi, di meningite, dopo essersi convertito sul letto di morte.
Per informazioni più approfondite, vi rimando all'interessante retrospettiva di Valetta sull'autore.

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