4 ottobre 2011

Angolotesti: "La scommessa di Prometeo" di Giacomo Leopardi

Buonasera a tutti i nostri lettori,
torna oggi Angolotesti, una selezione di testi letterari o poetici nella loro interezza con una breve contestualizzazione perché possiate meglio apprezzarli. Nulla di specifico, come al solito, solo qualche accenno per i non addetti ai lavori.
Anche stavolta rimaniamo nell'Ottocento, dopo Pascoli, e anche stavolta il testo proposto è di un poeta fondamentale nella storia della letteratura nostrana. Non è però una poesia che oggi vi sottopongo, ma un dialogo. Mi riferisco infatti a una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi.
Considerato uno dei primi poeti moderni, Leopardi s'inserisce nel contesto storico del Romanticismo, ma resta di fatto estraneo a qualsiasi movimento o tendenza preconcetta. La sua è una poetica critico-negativa, all'insegna di un pessimismo in continua evoluzione e di una denuncia che è inizialmente storica, poi cosmica. Partendo dal problema dell'infelicità umana, Leopardi le attribuisce infatti un significato storico, legato alla perdita delle illusioni nell'età moderna, che progressivamente entra in crisi conducendo l'autore a un pessimismo trascendente, legato all'infelicità come connaturata nell'uomo e dunque dovuta a una natura che dopo aver creato l'essere umano non è stata in grado di offrirgli i mezzi per essere felice. Le
Operette morali appartengono al terzo stadio del pessimismo leopardiano, caratterizzato da una saggezza distaccata e scettica sorta in seguito alla scoperta del pessimismo antico. Sono questi, inoltre, gli anni del silenzio poetico.
Si tratta di una raccolta di ventiquattro prose di argomento filosofico, dal taglio satirico, scritte tra il 1824 e il 1832, e chiaramente ispirate ai
Dialoghi dei morti di Luciano. Le prose, dialoghi o novelle, approfondiscono temi già trattati nello Zibaldone: la natura e la civiltà, la concezione materialistica, la teoria del Piacere, la virtù, la critica all'antropocentrismo, al progresso e alla religione, le illusioni, la gloria, la noia e il suicidio.
La scommessa di Prometeo è un dialogo, in parte propriamente dialogato, in parte descrittivo, in cui si narra di un bizzarro concorso organizzato da Giove per premiare con un ramo d'alloro la più lodevole invenzione mai prodotta. Prometeo (figura mitologica greca cui è attribuita la creazione dell'uomo), che concorre con lo stampo con cui ha creato il genere umano, viene sconfitto da Bacco, Minerva e Vulcano, inventori rispettivamente del vino, dell'olio e della pentola da cucina. Amareggiato, Prometeo convince Momo (oscura divinità figlia della Notte) a recarsi con lui sui cinque continenti della Terra per mostrargli il valore della propria invenzione.
Il dialogo è naturalmente una critica alle posizioni antropocentriche, un lucido e feroce riconoscimento della malvagità e della perversione umana a ogni livello di civiltà, nonché, conseguentemente, una sconfessione del mito del progresso e contemporaneamente della bontà dello stato di natura propugnata da alcuni illuministi. Temi fondamentali nella ricerca leopardiana, affrontati con lucida, distaccata e pungente ironia.



La scommessa di Prometeo

  

L’anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città e dei borghi d’Ipernéfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte, privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia, col segno di quella corona dintorno al capo.

    Concorsero a questo premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori d’Ipernéfelo, che a quelli di altre città; senza alcun desiderio di quella corona; la quale in sé non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano, si può congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto più sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con esempio unico e fino allora inaudito in simili casi di ricompense proposte ai più meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per l’invenzione del vino; Minerva per quella dell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso dopo il bagno; e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica, che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte come il tutto; perché Vulcano allegò che stando il più del tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo quell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante, come scrive Omero, a coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra, e la sua corona di pampini, con quella di lauro: benché l’avrebbe accettata volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune erario.

    Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre Dei che l’avevano conseguito e rifiutato, né si dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che quegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma bene il privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria. Alcuni pensano che intendesse di prevalersi del lauro per difesa del capo contro alle tempeste; secondo si narra di Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea la corona; stimandosi che l’alloro non sia percosso dai fulmini. Ma nella città d’Ipernéfelo non cade fulmine e non tuona. Altri più probabilmente affermano che Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare i capelli; la quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio, o non essendone persuaso, che e più credibile, voleva sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore, la nudità del capo.

    Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo, si querelava aspramente che il vino, l’olio e le pentole fossero stati anteposti al genere umano, il quale diceva essere la migliore opera degl’immortali che apparisse nel mondo. E parendogli non persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura dell’universo Il che accettato da Momo, e convenuti del prezzo della scommessa, incominciarono senza indugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al nuovo mondo; come quello che pel nome stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno degl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità. Fermarono il volo nel paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna; parecchi sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la vista per ogn’intorno, udire una voce né scoprire un’ombra d’uomo vivo. Andarono, parte camminando parte volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima solitudine. Come sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti, i temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati dall’aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle inondazioni del mare, così lontano di là, che non appariva da alcun lato; e meno intendeva per qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli uomini del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a’ formichieri, a’ cerigoni, alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualità di animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle quali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale, interrogollo: che si fa?

Selvaggio

Si mangia, come vedi.
Prometeo
Che buone vivande avete?
Selvaggio
Questo poco di carne.
Prometeo
Carne domestica o salvatica?
Selvaggio
Domestica, anzi del mio figliuolo.
Prometeo
Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
Selvaggio
Non un vitello ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
Prometeo
Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
Selvaggio
La mia propria no, ma ben quella di costui che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
Prometeo
Per uso di mangiartelo?
Selvaggio
Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo
Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.
Selvaggio
E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo.
Prometeo
Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche altra?
Selvaggio
D’un’altra.
Prometeo
Molto lontana di qua?
Selvaggio
Lontanissima: tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo.

    E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito dov’ella era; ma i nostri l’hanno distrutta. In questo parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stessero mirando con una cotal guardatura amorevole, come è quella che fa il gatto al topo: sicché, per non essere mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo; e seco similmente Momo: e fil tanto il timore che ebbero l’uno e l’altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei barbari con quella sorta d’immondizia che le arpie sgorgarono per invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più famelici e meno schivi de’ compagni di Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più vecchio, voglio dire all’Asia: e trascorso quasi in un subito l’intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso ad Agra in un campo pieno d’infinito popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e dei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo, s’immolasse volontariamente per la sua patria. Intendendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s’induceva ad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dalle donne vedove della sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito il dosso a quello spettacolo, prese la via dell’Europa; dove intanto che andavano, ebbe col suo compagno questo colloquio.

Momo

Avresti tu pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?
Prometeo
No per certo. Ma considera, caro Momo, che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini; ma bene dagl’inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.
Momo
Io per me non veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere dell’universo, come faccia di bisogno che sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la fenice, che non si trova; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli generati a quest’uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti del mondo una sola, né tutta intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di un’altra parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia abbiano generalmente tutta la perfezione che può convenire alla loro specie. Ora, per condursi al presente stato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall’origine dell’uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento dello stato civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana è opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l’uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l’opposto della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun’altra cagione; all’ultimo, se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamente l’una coll’altra; argomentando da certi cotali presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E quando eziandio non fosse chiaro che l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l’uomo, s’abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili.

    Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.

Prometeo
Chi sono questi sciagurati?
Un Famiglio
Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo
Chi gli ha uccisi?
Famiglio
Il padrone tutti e tre.
Prometeo
Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?
Famiglio
Appunto.
Prometeo
Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.
Famiglio
Nessuna, che io sappia.
Prometeo
Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
Famiglio
Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore.
Prometeo
Dunque come è caduto in questa disperazione?
Famiglio
Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo
E questi giudici che fanno?
Famiglio
S’informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non ricada.
Prometeo
Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio d’ammazzarli?
Famiglio
Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane.

    Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, né spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.



Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati, nelle Marche, da famiglia nobile e conservatrice. Soffocato dal clima retrogrado del borgo, Giacomo fin da giovanissimo si gettò negli studi. Tra il 1815 e il 1817, insieme ai primi -gravi- problemi di salute, si manifestò una conversione letteraria che lo spinse ad avvicinarsi agli scrittori moderni (illuministi e romantici) e soprattutto all'amicizia del classicista Pietro Giordani. Insieme allo Zibaldone, un diario di pensieri cui Giacomo affidò tutte le sue speculazioni poetiche e filosofiche, sono di questo periodo i primi saggi, le prime canzoni (tra cui All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, L'ultimo canto di Saffo) e i cosiddetti idilli (tra cui L'infinito, La sera del dì di festa e Alla luna).
Dopo un deludente soggiorno a Roma, ospite dello zio materno, Leopardi tornò a Recanati disincantato dal mondo esterno che aveva finalmente potuto toccare con mano: con
Alla mia donna diede l'addio temporaneo alla poesia, dedicandosi alla stesura delle Operette morali.
Dal 1825 al 1828 Leopardi visse a Milano, Bologna, Firenze (dove conobbe Manzoni) e infine a Pisa, il cui ambiente, che frequentò per un anno, favorì il suo riavvicinamento alla poesia. A causa dei problemi di salute, nel 1828 Leopardi fu costretto a rientrare a Recanati e a restarvi fino al 1830. E' questo il periodo dei cosiddetti canti pisano-recanatesi, tra cui spiccano
A Silvia, Il risorgimento, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante d'Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario. Grazie a una colletta degli amici fiorentini, che misero a sua disposizione una piccola rendita, il poeta fu in grado di tornare a Firenze, dove conobbe il letterato napoletano Antonio Ranieri e dove si innamorò di Fanny Targioni Tozzetti, a cui dedicò il cosiddetto ciclo di Aspasia (cui sono ascrivibili Amore e morte, A te stesso, Consalvo, Il pensiero dominante, Aspasia).
Nel 1833, e fino alla sua morte avvenuta nel 1837, Leopardi visse nel napoletano insieme a Ranieri. Appartengono a questa fase le sue ultime opere, la Paralipomeni della Batracomiomachia e le poesie
La ginestra e Il tramonto della luna. Tutte le sue poesie furono pubblicate nella raccolta Canti, uscita in tre edizioni rispettivamente di ventitré, trentanove, quarantuno testi negli anni 1831, 1835, 1845.

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