24 ottobre 2015

Dal libro al film: Suite francese

Suite si definisce un componimento musicale fatto di vari brani concepiti per creare un unica melodia: il titolo, non è dato sapere quanto definitivo, scelto dall'autrice per l'opera incompiuta considerata il testamento letterario di Iréne Nèmirovsky, racconta di un'ispirazione che riunisce una serie di storie, di filoni narrativi, tutti compresi nella cornice storica della II Guerra Mondiale e che vuole riprodurre una visione ampia della Francia di fronte all'incubo dell'invasione nazista. Il grande affresco sociale della Republique sull'orlo della catastrofe nel 1940, ridotta in ginocchio in pochi mesi dalle trionfanti panzer-division hitleriane e costretta all'ignominia dello stato collaborazionista di Vichy, doveva raccontare la tragedia di una nazione da vari punti di vista e intrecciando diverse storie, di diverse provenienze sociali e forse veniva concepito come il suo capolavoro dalla scrittrice di origini ebree ucraine naturalizzata francese. In realtà le vicende della guerra e della deportazione hanno reso Suite francese oltre che l'ultima opera dell'autrice anche la prima a decretarne il ritorno al successo editoriale circa sessant'anni dopo, con la pubblicazione di quello che sarà il primo best seller contemporaneo della Nèmirovsky,dopo decenni di oblio ingiustificato e immeritato. Seguendo il naufragio dell'autrice tra le onde oscure della shoah, il manoscritto contenente il romanzo non ancora terminato è rimasto dimenticato dal 1942 in una valigia, dove la figlia di Iréne, Denise Epstein lo ha lasciato giacere credendo si trattasse di un diario vergato dalla madre nei giorni precedenti la partenza per il lager in cui avrebbe trovato la morte. Solo nel 1990 la donazione dei manoscritti ad un archivio – atto che solitamente prelude un oblio ancor più profondo – ha portato al ritrovamento, e alla pubblicazione nel 2004, di quello che per consenso quasi universale si può ritenere un capolavoro del XX secolo, e nel giro di pochi anni, poco più di una decina, all'approdo sul grande schermo di una sua versione cinematografica con lo stesso titolo. A ben vedere la vita avventurosa e tragica della scrittrice stessa avrebbe tutte le carte in regola per diventare essa stessa un film, e chissà che non succeda, prima o poi. Intanto questo destino è toccato - e con un esito non disprezzabile - al suo capolavoro, per quanto diverse altre opere di Nèmirovsky non siano meno meritevoli, da Jezabel a Il malinteso a David Golder. A patto di fare alcune considerazioni a tutela dello spettatore-lettore.

Il libro, come si diceva, racconta un momento di grande sofferenza per la nazione tanto amata dalla scrittrice da farne la seconda patria: i Francesi sono stati sbaragliati così rapidamente da Hitler che faticano a rendersene conto e annaspano in una sorta di abulica rassegnazione che oscilla tra l'odio per il vincitore e un servilismo opportunista e viscido. La grandezza del ritratto che ne viene fuori – pur nell'incompiutezza cui la sorte lo ha relegato – sta soprattutto nella capacità di Iréne Nèmirovsky di costruire un ritratto corale della società francese, intrecciando storie di singole situazioni, creando canto e controcanto: la vicenda del collezionista, il cui unico interesse è salvare le sue preziose cineserie, scoprendo anche come la necessità tiri fuori la parte più gretta dell'animo umano, viene bilanciata dalla coppia di coniugi di condizione modesta che trova nella commovente normalità di un amore quotidiano e prosaico la forza per resistere al disastro dell'occupazione di Parigi e alla perdita di ogni sicurezza, compreso l'unico figlio disperso al fronte; lo spudorato opportunismo della ballerina mantenuta che sa di dover semplicemente cambiare protettore con una giravolta e non tiene conto degli aspetti morali delle sue azioni perché ha sempre seguito solo il suo egoistico interesse trova il suo opposto nella rigida e classista madre di buona famiglia, organizzata e piena di pretese anche nella catastrofe, intenzionata a non abbandonare neppure i gatti, generosa solo se i suoi bambini sono già sazi e sicuri, che non cede una virgola del suo orgoglio sociale.
Nel convergere di tutti questi destini che si incrociano e sfiorano tra dolore e voglia di sopravvivere manca qualsiasi posizione ideologica da parte della scrittrice. Il male e la morte sono presenti perché fanno parte della vita – come appare in modo evidente dall'episodio del giovane sacerdote che accompagna gli orfani selvaggi nello sfollamento: solo, la guerra riporta a galla la natura ferina dell'uomo che la civiltà normalmente nasconde per ipocrisia. Di tutta la complessità di una trama polifonica e ricca di sfumature distribuite con virtuosismo da quella che è stata anche definita la Fitzgerald europea, nella trasposizione cinematografica rimane poco. Al netto di interpretazioni pregevoli – soprattutto la cattiva vecchia Angellier, interpretata da una magnifica Kristin Scott Thomas – la scelta degli sceneggiatori ha isolato un solo momento della suite, quello che si svolge nel piccolo villaggio di Bussy e che, intonando una storia d'amore tormentata dal dilemmatico rapporto tra vincitore e vinta, prevedibilmente avrebbe potuto risultare più coinvolgente per il pubblico. Di tutto il resto resta qualche traccia in alcune citazioni sparse qua e là nel film e che però alla fine rischiano di essere più enigmatiche che altro. La storia del film si concentra sul rapporto che nasce nel paesino occupato tra un giovane ufficiale tedesco, Bruno, e Lucille, che assieme all'arcigna suocera è costretta ad ospitarlo nella loro elegante dimora di ricchi notabili locali. La situazione è resa più difficile dal fatto che il marito di Lucille, partito per la guerra, è disperso.
Bruno e Lucille, vittime entrambi di matrimoni infelici, si scoprono vicini nonostante siano in guerra e proprio attraverso la comune passione per la musica. Da questo possiamo riconoscere che il titolo almeno rimane appropriato. Inoltre scenografie e ambientazioni sono davvero accurate e credibili: gli abiti, il gusto nell'arredamento, gli esterni rimandano a una regia talentuosa come la mano della scrittrice, seppure a tratti un po' manierata. Perfino la scelta di un'attrice come Scott Thomas per il ruolo della suocera di Lucille, tirannica e severa, è azzeccata, anche se per la parte ci si sarebbe potuti aspettare un'interprete più attempata. Alla lunga però la scelta di enfatizzare i tratti più melodrammatici della vicenda, cioè il suo coté sentimentale, modificando anche la trama su fatti come la sorte del visconte compromesso coi nazisti invasori, e la necessità conseguente di avere un finale strappalacrime, che nel libro manca anche se la realtà non è stata meno fantasiosa, rendono il film qualcosa di piuttosto riduttivo rispetto al romanzo, per quanto – come si è già detto – il prodotto sia, in sé, tutt'altro che disprezzabile.

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