1 giugno 2011

La vetrina degli incipit - Maggio 2011

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...






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«Capitolo I

26 Settembre 1972: I due pisciasotto

“Proibito significa PROI BITO!” – strilla Padre Kelly.
“Ma va? Cazzone…” Una delle cose che mi piacciono di Bolley è che anche quando usa parole che non ho mai sentito prima, capisco lo stesso cosa vuole dire. Solo che ogni volta mi tocca capire come si scrivono, perché non ci sono mai nel
Dizionario della Famiglia Cattolica e lui non me lo sa mai dire. In ortografia è veramente una schiappa.
Ho otto anni, quasi nove. Il sole attraversa le enormi vetrate della sala riunioni, il che è un gran bene perché, se non inizia a piovere, dopo pranzo ci lasciano giocare a calcio. La nostra scuola, la St. Stephen’s, non ce l’ha un campo da calcio, perciò il martedì ci facciamo a piedi tutta la strada fino alla scuola protestante ad Underchurch, che ne ha uno eccezionale, con tanto di linee bianche, le bandierine e
pure le reti. Certo sarebbe meglio se le cose fossero al contrario e toccasse ai ragazzi di Underchurch fare tutta quella strada per usare il nostro campo. Sto iniziando a pensare che essere Cattolico non vuole dire che vieni trattato meglio dei protestanti, non fa nulla sa noi abbiamo la maiuscola e loro no. Secondo nonna, è perché Dio opera in modi misteriosi.»
Dio non sta bene, di Paul Andrew Jarvis - Vittoria A.

«Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l'occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m'innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d'amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l'altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l'effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.»
Nedda (da Vita dei Campi), Giovanni Verga - Sakura

«La terra d'Egitto vive tempi di grande turbamento. Il Cairo mi pare irriconoscibile; qualcosa è radicalmente mutato rispetto ai miei precedenti viaggi. Ormai conosco bene il dialetto del paese, e i discorsi che vi si intendono non sono più quelli di una volta. La città mi fa pensare a un malato che fatica a contenere le lacrime, a una donna che la minaccia di uno stupro riempie di terrore nel cuore della notte. Anche il cielo è di un azzurro livido, di un chiarore torbido, oscurato da una nebbia che giunge da lontano. Ricordo che nei villaggi d'India, prima dello scatenarsi della peste, l'atmosfera si faceva sempre umida e soffocante.»
Zayni Barakat. I misteri del Cairo, di Gamal Ghitani - Lorenzo Pompeo

«Vagano, i calabroni. E mi vogliono. In questo inizio di primavera infittiscono i volteggi, le capriole, i balzi e i guizzi. Si lisciano le alette, si lavano il petto, il viso e il ventre, si profumano con essenze e fragranze nauseabonde. Pregustano il miele delle terse giornate di marzo, si accalcano a seminare il terreno nella segreta speranza di ottenere fioriture e frutti a loro somiglianza.
È come se volessero aggiustarmi, ricompormi, ordinare gli elementi trovati fuori posto per impiantarli in un corpo fresco, agghindato con nuovi zigomi, diverse caviglie o improbabili ascelle.
Si presentano al mio cospetto raggianti, ben forniti di protervia e ossequi, oppure già sconfitti, tremolanti e privi di nerbo; elemosinano un cenno e s'illuminano ben presto davanti ai miei primi sguardi.
»
Gli occhi magri, di Walter Sabatini - Desian

«Henri gettò un ultimo sguardo al cielo: un cristallo nero.
Mille aerei a saccheggiare questo silenzio, erano difficili a immaginarsi; ma le parole continuavano a urtarsi nella sua testa con un rumore allegro: offensiva arrestata, disfatta tedesca, presto me ne potrò andare.
Voltò l’angolo del lungofiume.
»
I mandarini, di Simone de Beauvoir - Livia Medullina

«23. Alice aprì di scatto gli occhi nell’oscurità che l’avvolgeva.
Sbatté un po’ le palpebre assonnate prima di abituare lo sguardo al buio e riuscire a distinguere i contorni familiari della sua minuscola cameretta: l’enorme armadio chiaro che occupava l’intera parete di fronte al letto, la minuscola scrivania addossata al muro, ingombra di roba, e la porta socchiusa da cui filtrava una sottile e flebile striscia di luce notturna proveniente con ogni probabilità dalla finestra in corridoio.
Non avrebbe saputo dire cosa l’avesse svegliata, ma di colpo aveva spalancato gli occhi e si era sentita più vigile che mai. La tapparella completamente abbassata – era una vera fissazione per lei, che per dormire aveva bisogno del buio più assoluto – non le permetteva di capire se fosse l’alba o ancora piena notte, così cercò a tastoni sul comodino la sveglia digitale che al suo tocco esperto si illuminò di un bagliore verde fosforescente.
23. Guardò meglio strizzando gli occhi… Chissà da dove le era uscito quel numero! La sveglia segnava invece le quattro del mattino. Aveva ancora davanti tre ore piene di sonno, se solo fosse riuscita a riaddormentarsi in fretta.
»
In ricordo di noi, di Rossella Martielli - Daniele

«Chi sa giocare a scacchi prenda una scacchiera, la disponga in bell'ordine davanti a sé e immagini ciò che sto per descrivere. immagini al posto degli scacchi bianchi un uomo dal volto intelligente, due forti gibbosità appaiono sulla sua fronte, un po' al di sopra delle ciglia, la dove Gall mette la facoltà del calcolo, porta un collare di barba biondissima ed ha i mustacchi rasi, com'è costume di molti americani.»
L'alfier nero (da Fantastico italiano), di Arrigo Boito - Polyfilo

«"Marx cambia completamente la mia visione del mondo" mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.
Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari – la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi –, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualche cosa. Che cosa possono capirci le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente. "Dovrebbe leggere
L'ideologia tedesca" gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia. Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai proprio bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
"Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto. Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di felino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge
L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.
"Mi saluti tanto la sua mamma" borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.
»
L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery - Pyhia

«Dublino, 29 marzo 1967
Come in tutti gli edifici governativi, l'interno della sala d'attesa del Ministero della Previdenza Sociale era scialbo e poco accogliente. Le pareti erano tricolori: la metà inferiore "verde governo", come lo chiamavano tutti a Dublino; la metà superiore color crema, o forse di un bianco parecchio ingiallito; la striscia in mezzo, larga un paio di centimetri, rossa. Per sedersi ci si doveva accontentare di un paio di panche di legno stile banchi da chiesa, tutte sfregiate da iniziali e date. Dal centro dell'alto soffitto pendeva il lampadario, un filo lungo due metri con al fondo una grande boccia di vetro opaco. L'esterno della boccia era coperta di polvere, l'interno era ingiallito e punteggiato di cacche di mosca.
"Gli sta bene" disse la donna fissando il globo.
"Come? A chi è che gli sta bene, Agnes?" chiese l'amica con dolcezza.
"A quelle". Indicò il lampadario. "Alle mosche... gli sta bene".
Marion alzò gli occhi verso il globo. Per un paio di minuti, entrambe fissarono la luce.
"Gesussanto, tesoro, chi ti capisce è bravo...in che senso gli sta bene?"
Era perplessa, e non poco preoccupata per la salute mentale di Agnes. Il dolore è il padre di tutte le stranezze. Agnes indicò di nuovo il lampadario.
"Si sono andate a ficcare in quella specie di boccia, giusto? E poi non sono riuscite a uscire, si sono cacate sotto e sono schiattate. Gli sta bene, no?"
»
Agnes Browne mamma, di Brendan O' Carroll - Heleonor

«Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d'accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d'un uomo che s'inoltra negli anni ed è vicino a morire di un'idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m'ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana; l'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue.
»
Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar - Tancredi

«L'orologio, come una luna metallica, guarda fisso dalle pareti blu scure della stanza. In meno di due ore riceverò il mio referto medico e saprò.
Guardo i bambini seduti davanti a me - testoline scure chinate sui quaderni da disegno, camicie coperte da uno strato di polvere, come la lavagna dal gesso, crostosi gomiti neri che sporgono - bambini scappati di casa che si aggrappano ai margini di questa città, i miei bambini, di cui mi occupo per tre ore ogni pomeriggio.
Ramu sta di nuovo fissando fuori dalla porta. Anche lui è distratto oggi.
»
Gente di Mumbai, di Munmun Ghosh - Valetta

«Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell'ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l'avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti.»
Lamento di Portnoy, di Philip Roth - Lorem Ipsum

«Sembra che l'invenzione degli scacchi sia legata a un fatto di sangue.
Narra infatti una leggenda che quando il gioco fu presentato per la prima volta a corte il sultano volle premiare l'oscuro inventore esaudendo ogni suo desiderio. Questi chiese per sé un compenso apparentemente modesto, di avere cioè tanto grano quanto poteva risultare da una semplice addizione: un chicco sulla prima delle sessantaquattro caselle, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza, e così via...
Ma quando il sultano, che aveva in un primo tempo accettato di buon grado, si rese conto che a soddisfare una simile richiesta non sarebbero bastati i granai del suo regno, e forse neppure quelli di tutta la terra, per togliersi dall'imbarazzo stimò opportuno mozzargli la testa.
La leggenda sottace il fatto che quel sovrano dovette pagare in seguito un prezzo ben maggiore: egli si appassionò al nuovo gioco fino a smarrirne la ragione. L'esosità del mitico inventore, infatti, è pari solo a quella del gioco stesso.
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La versione di Lüneburg, di Paolo Maurensig - Morwen

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