1 luglio 2011

La vetrina degli incipit - Giugno 2011

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...






***

«Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell'Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d'erbacce e d'ortiche sulle prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire sotto una coltre verdeggiante. Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitato per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiare sempre più sodo sul giovane granturco, finché vide ingiallire gli orli di ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono di un verde più scuro per mascherarsi alla vista e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d'una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia.»
Furore, di John Steinbeck - Livia Medullina

«Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio. Mi affacciai alla finestra. Gridò "arrivano". Di corsa infilai le scale, mia madre mi gridò dietro qualcosa.
Nella strada che abbagliava di sole non c'era un cane. Filippo stava mezzo nascosto nel portone della casa di fronte. Mi raccontò che in piazza stavano il podestà l'arciprete e il maresciallo, aspettavano gli americani, un contadino aveva portato la notizia che arrivavano, erano al ponte di Canalotto.
In piazza c'erano invece due tedeschi: avevano spiegata per terra una carta e uno di loro vi segnava con la matita una strada, pronunciava un nome e alzava gli occhi verso il maresciallo che diceva "sì, va bene".
»
La zia d'America (da Gli zii di Sicilia), di Leonardo Sciascia - Sakura

«Il tram giallo passa Varsavia da parte a parte, anche oggi. Następny przystanek: Wawelska, recita il suo pezzetto di gloria la voce più famosa della città. Guardatelo: se ne sta seduto beato facendo finta di guardare fuori dal finestrino e di interessarsi a ciò che vede, quel maledetto turco. Si chiama Felix. Io mi chiamo Felix, e voglio ucciderlo.»
Warszawa, di Fabio Elia - Lorenzo Pompeo

«L'uomo di colore, con i pantaloni di tela consumati e la giubba blu che costituivano l'uniforme della Marina unionista, percorse la stretta stradina, osservando i danni causati dalla rivolta. Metà delle case fatiscenti che vide apparivano annerite o variamente danneggiate dal fuoco, e tutte quante erano state saccheggiate. Al momento erano abbandonate, lasciate in balia dei ratti finché gli abitanti non fossero tornati per cercare di riprendere la loro vita.
Il marinaio ora si chiedeva se ciò sarebbe mai accaduto. Lincoln aveva liberato gli schiavi, ma la cosa sembrava aver fatto infuriare ancora di più i bianchi. A volte l'uomo pensa-va che essere uno schiavo nei campi dell'Alabama o del Mississippi fosse sempre meglio che essere libero in una città come New York. Se un nero aveva un lavoro, doveva averlo rubato a un bianco; se non ce l'aveva, era solo un negro scansafatiche convinto che il resto del mondo fosse tenuto a mantenerlo. Non che in Marina fosse tanto meglio, ma almeno i pasti erano regolari e la paga era migliore rispetto a quella di chi doveva spalare la merda dei cavalli dalle strade o caricare le balle di cotone sulle navi in partenza per l'oceano.
Almeno i linciaggi, i roghi e i pestaggi erano finiti. Con l'arrivo delle truppe dalla Pennsylvania e dal Maryland, una strana calma era scesa sulle strade della città. Nessuno aveva ripreso a fare grandi affari, ma il marinaio sapeva che, tra qualche tempo, le cose sarebbero tornate alla normalità. I vetri rotti sarebbero stati spazzati via, gli edifici incendiati sarebbero stati rimessi a posto e i giornali avrebbero trovato qualche altra causa da perorare o da combattere.
»
Il vampiro di New York, di Lee Hunt - Pythia

«Andrew Harlan entrò nel cronoscafo. Era una struttura perfettamente sferica inserita in una gabbia di aste regolarmente distanziate che parevano vibrare come aria sottoposta a evaporazioni di caldo. Harlan manovrò i comandi e mise in posizione la leva di partenza.
Il cronoscafo non si mosse. Harlan, comunque, non si era aspettato che lo facesse. Non s'aspettava movimenti di sorta, né verso l'alto o il basso, né a destra o a sinistra, né in avanti o all'indietro. Tuttavia, gli intervalli fra le aste si erano fusi in un grigiore uniforme, solido al tatto ancorché immateriale. E poi c'era quel senso di leggerissima nausea e quel debole accenno di vertigini (d'origine psicosomatica?) che rivelavano che il cronoscafo, con tutto quel che conteneva, Harlan compreso, stava sfrecciando in avanti, attraverso l'Eternità.
»
La fine dell'Eternità, di Isaac Asimov - Tancredi

«Fillus de anima.
È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo tempo dopo.
Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento.
Maria sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere, ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo, nel momento misterioso in cui le figlie bambine decidono da sole cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte. Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali, uno che usciva e uno che si nascondeva sotto l’orlo della gonna nera, in un ballo muto di cui a fatica le gambe seguivano il ritmo.
»
Accabadora, di Michela Murgia - Morwen

«Alle undici e mezzo il cielo sopra l’aeroporto era limpido sotto i duemila metri, per mezzogiorno la nuvolosità era scesa a milleseicento e mentre l’aereo rullava preparandosi al decollo, all’una meno cinque, le nubi si erano abbassate ancora a quota mille metri. Il vento soffiava a sessanta chilometri orari ed era cominciato a cadere un leggero nevischio. Il pilota diede gas e il velivolo sfrecciò attraverso il vento. Dalla torre di controllo videro l’aereo librarsi sopra la pista, che era orientata verso Sud, e fare una virata a U verso Nord, inclinandosi poi verso Nord Ovest, in direzione dell’abitato di Bresso, lasciandosi alle spalle l’area artigianale di Sesto San Giovanni. La coda dell’aereo era ancora ben visibile quando questo s’infilò in una nuvola bassa, una volta emerso, pochi istanti dopo, sembrava in fase discendente. Di norma il pilota avrebbe dovuto mettersi in contatto con la torre entro i primi minuti dal decollo, per confermare il piano di volo. Ma il tempo passava e non si udiva altro che silenzio.»
Torre di controllo, di Giuseppe Foderaro - Vittoria A.

«Ecco.
Vai a una città, un centro storico, una strada principale illuminata da insegne intermittenti che brillano e si riflettono sul ciottolato reso lucido dall’andirivieni costante degli acquirenti compulsivi.
Vai alle vetrine piene di manichini muscolosi. Perfetti nell’angosciante distribuzione di tendini e pieghe sulla pelle. L’uomo vitruviano del 2000 sta immobile infilato dentro un negozio. E non è Leonardo Da Vinci, ma Yves Saint Laurent.
Percorri tutta la città, guarda dentro ogni vicolo, respira la vita nascosta dietro le finestre accese. Non fermarti mai, nemmeno per riprendere fiato.
Oh, ecco una piazza. Tante persone che formicolano come pedine impazzite, parlano, urlano. Le loro voci sono confusione e caos.
Stai fermo lì, fermo così.
Cheese!
Ora che hai una città, una qualsiasi, crea il profilo di un uomo qualunque. Un personaggio, uno sconosciuto come tanti, uno di quelli che hai già incontrato e continuerai a incontrare mentre cammini a cento all’ora sopra un marciapiede.
Occhi, capelli, labbra, fai tu. Il naso, la statura, il corpo, non mi interessa. Diamo a quest’uomo un’occupazione normale. Mettiamolo dentro una macchina: una Mercedes nera Classe S.
Il nostro uomo fa l’autista, ecco il perché di una macchina così ricercata. Interni in pelle e ogni tipo di comodità.
»
Sangue e fango, di Alessandro Vigliani - Daniele

«Non a torto, Sereno, potrei dire che tra gli Stoici e gli altri maestri di filosofia sussiste una differenza tanto grande quanto quella tra i maschi e le femmine, dato che entrambi i sessi contribuiscono alla vita comune, ma mentre i primi sono nati per comandare, le seconde invece sono destinate all'obbedienza.»
Sulla coerenza del saggio, di Lucio Anneo Seneca - Polyfilo

«Nessuno mi conosceva a Buckton. Clem aveva scelto la città per questo; e, d'altra parte, anche se avessi voluto cambiare idea non mi restava benzina sufficiente per risalire più a nord. Appena cinque litri. Un dollaro, e la lettera di Clem, era tutto quello che possedevo. La valigia, non ne parliamo neppure. Per quello che conteneva. Dimenticavo: avevo nel portabagagli il revolver del ragazzo, un modesto 6.35 a buon mercato; ce l'aveva ancora in tasca quando lo sceriffo era venuto a dirci di portare a casa il cadavere per farlo seppellire.»
Sputerò sulle vostre tombe, di Boris Vian - Lorem Ipsum

«A mile above Oz, the Witch balanced on the wind's forward edge, as if she were a green fleck of the land itself, flung up and sent wheeling away by the turbulent air. White and purple summer thundeheads mounded around her. Below, the Yellow Brick Road looped back on itself, like a relaxed noose. Though winter storms and the crowbars of agitators had torn up the road, stil it led, relentlessly, to the Emerald City.The Witch could see the companions trudging along, maneuvering around buckled sections, skirting trenches, skipping when the way was clear.They seemed oblivious of their fate. But it was not up to the Witch to enlighten them.»
Wicked, di Gregory Maguire - Valetta

«Io odio cucinare. Però potrei partecipare a un concorso internazionale di torte di mele: la mia è la più deliziosa che si possa assaggiare ed è l'unica cosa che gli amici spazzano via in meno di tre secondi. Cioè il tempo ufficiale che a casa mia si impiega per fare la faccia strana dopo aver sperimentato uno a scelta degli unici altri piatti che mi riescono: le stelline in brodo e il brodo.»
Lo chef è un Dio, di Ilaria Bellantoni - Heleonor

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